TITOLO: Due storie sporche
AUTORE: Alan Bennett
EDIZIONE: Adelphi
PAGINE: 134
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 8
Questo scrittore lo conosco poco, oltre questi due racconti brevi, ho letto solo Nudi e crudi, ma vi assicuro che è un'esperienza ironica e intelligente.
Passerete un paio d'ore ridacchiando.
Il libro, molto piccolo, è composto da due storie: la prima vede come protagonista una signora di circa cinquant'anni, vedova, che per arrotondare la pensione fa la finta paziente nelle prove pratiche degli studenti di medicina all'ospedale. Inoltre, sempre per arrotondare, decide di affittare una delle camere vuote a degli studenti.
Il bello arriva quando, non potendo pagare l'affitto, i suddetti studenti le propongono di "guardarli" mentre fanno sesso, considerandolo un "pagamento in natura".
La seconda storia parla di una famiglia un po' ipocrita, in cui il bellissimo figlio gay si sposa con una ragazza bruttina che alla madre di lui non piace affatto. Ma la sorpresa è che la ragazza non è affatto stupida e sprovveduta, ma comincia a manovrare senza farlo sapere a nessuno la vita del marito. E anche a farsi suo padre, se proprio la vogliamo dir tutta, da cui avrà due gemelli.
Insomma, in breve, le due storie sono queste, ma sono raccontate con un'ironia così azzeccata da rendere bello ciò che in mano ad altri sarebbe potuto diventare banale. O anche noioso.
Mentre scorriamo le parole, sembra che tutto sia perfettamente logico, che niente poteva esser diverso da come viene narrato e alla fine siamo soddisfatti di tutto.
Siamo felici che la signora del primo racconto ha potuto infine "toccare con mano" quello che finora aveva solo guardato dallo sgabello della sua camera da letto. In un certo senso se lo merita. Ed è bello sentirla finalmente ridere rilassata con l'amica mentre le racconta di quelle serate.
Inoltre, è davvero esaltante vedere la bruttina Betty dare scacco matto a quel vanitoso di suo marito nonché (soprattutto) a quella vipera di sua suocera, portandosi a letto il suocero (persona che sembra sullo sfondo ma che ha molta più vitalità di quanto non sembri). Per non parlare di come salva il viziato marito dal ricattatore: una mossa astuta e degna di lei.
Perché leggere questo libro? Innanzitutto, è breve, quindi anche se non dovesse piacervi al massimo avrete perso un paio d'ore o forse meno.
E poi perché a nessuno dispiace in fondo lo humor nero inglese: di per sé è una garanzia.
Un libro che ti graffia pur non lasciandoti i segni, senza sangue, senza dolore, ma al contrario con allegria.
Trovatemi un altro libro del genere!
Anarchic Rain
domenica 29 marzo 2015
lunedì 23 marzo 2015
Un po' di incipit...
Immagine presa da ebay |
Cos'è che ci cattura di un libro?
Un libro è come una persona che abbiamo appena incontrato: la prima cosa che vediamo è l'esterno (la copertina), com'è vestita, l'atteggiamento del volto, i movimenti, il profumo, la voce; poi cominciamo a conoscerla (il quarto di copertina, il riassunto, diciamo) e quindi già ce ne facciamo un'idea. Poi ad un certo punto, per caso, questa persona dice una frase e ci conquista.
Un libro, un buon libro, ci conquista fin dalla prima frase (anche perché abbandonare una persona nel mezzo di una conversazione non è carino, mentre un libro lo richiudiamo senza problemi dopo un paio di frasi).
Per i più sensibili, vorrei specificare che non sempre un buon incipit è segno di buon lavoro, come anche un incipit che zoppica non lo è di uno cattivo. Ma in generale, posso dire che i libri che ben cominciano mi sono praticamente piaciuti tutti (sarà un caso?).
E allora ho pensato di raccogliere in un unico post, qualche incipit (famoso e meno famoso) tra quelli che mi hanno catturata.
Anna Karenina (Lev Tolstoj): Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo proprio.
Oceano mare (Alessandro Baricco): Sabbia a perdita d'occhio, tra le ultime colline e il mare -il mare- nell'aria fredda di un pomeriggio quasi passato e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.
Qualsiasi favola: C'era una volta, in un regno lontano lontano...
A volte ritorno (John Niven): "Dio sta arrivando...fate finta di lavorare!"
American dust: prima che il vento si porti via tutto (Richard Brautighan): Quel pomeriggio non sapevo che la terra aspettava di ridiventare una tomba nel giro di qualche giorno appena. Peccato non poter afferrare il proiettile in corsa e respingerlo dentro la canna del fucile calibro 22 perché si riavviti nel caricatore e da lì dentro il bossolo, come se non fosse mai stato sparato o nemmeno mai caricato.
A single man (John Isherwood): Svegliarsi è cominciare a dire sono e ora. Poi ciò che si è svegliato resta sdraiato per un momento a osservare il soffitto e dentro se stesso finché non abbia riconosciuto Io, e da questo dedotto Io sono-, Io sono ora. Qui viene dopo ed è, almeno in negativo, rassicurante; poiché stamane è qui che si aspettava di trovarsi; come dire a casa propria.
Kitchen (Banana Yoshimoto): Non c'è posto al mondo che io ami più della cucina.
Fight club (Chuck Palanhiuk): Tyler mi trova un posto da cameriere, dopodiché c'è Tyler che mi caccia una pistola in bocca e mi dice che il primo passo per la vita eterna è che devi morire.
Scelti dalle tenebre (Anne Rice): Sono il vampiro Lestat. Sono immortale. Più o meno. La luce del sole, il calore continuativo di un fuoco intenso...ecco, potrebbero annientarmi. O forse no.
La caduta di casa Usher (Edgar Allan Poe): In una giornata triste, buia e troppo silenziosa, con un cielo di nuvole basse e pesanti, dopo aver cavalcato da solo per un tratto di campagna particolarmente desolato, verso sera, mentre le ombre si facevano più lunghe, mi trovai di fronte alla malinconica casa Usher.
La maschera della morte rossa (Edgar Allan Poe): Da lungo tempo la Morte Rossa devastava il paese. Nessuna pestilenza era mai stata così fatale, così spaventosa. Il sangue era la sua manifestazione e il suo sigillo: il rosso e l'orrore del sangue.
Il cuore rivelatore (Edgar Allan Poe): E' proprio vero! -Nervoso -molto, spaventosamente nervoso, ero e sono ancora; ma perché dire che sono pazzo?
L'amante (Marguerite Duras): Un giorno, ero già avanti negli anni, in una hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: "La conosco da sempre. Tutti dicono che da giovane lei era bella, io sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane".
9 settimane e mezzo (Elizabeth McNeill): La prima volta che siamo stati a letto insieme mi ha tenuto le mani inchiodate sopra la testa. Mi è piaciuto. Mi è piaciuta la cosa e mi piaceva lui. Era strano in un modo che mi è parso romantico; spiritoso, intelligente, interessante da parlarci insieme; e mi ha fatto godere.
Piccole donne (Louise May Alcott): "Un Natale senza regali non sembra nemmeno Natale" disse Jo sdraiata sul tappeto dinanzi al caminetto.
La signora delle camelie (Alexandre Dumas): Penso che non si possano creare dei personaggi senza aver studiato a fondo gli uomini, come non si può parlare una lingua che a patto di averla imparata seriamente. Non avendo ancora raggiunto l'età nella quale s'inventa, mi accontento di riferire.
Il grande Gatsby (F.S. Fitzgerald): Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente: "Quando ti viene la voglia di criticare qualcuno, mi disse, ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu".
La fine del mondo e il paese delle meraviglie (Haruki Murakami): L'ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non di muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?
Il giardino di cemento (Ian McEwan): Non ho ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra quasi di avergli dato una mano a morire. E se non fosse capitata in coincidenza con una pietra miliare del mio sviluppo fisico, la sua morte sembrerebbe un fatto insignificante in confronto a quello che è successo dopo.
Jack Frusciante è uscito dal gruppo (Enrico Brizzi): presto sarebbe volato via pure quello stupido febbraio e il vecchio Alex si sentiva profondamente infelice ma in un modo distaccato, come se la sua vita appartenesse -sensazione fin troppo tipica e cruda ne convengo- a qualcun altro
ma non ghignate, per favore, poiché all'epoca il vecchio Alex non aveva ancora compiuto diciott'anni e in quei giorni il cielo di Bologna era espressivo come un blocco di ghisa sorda e da simili espressività non avreste potuto aspettarvi nulla d'esaltante, neppure uno di quei bei temporaloni definitivi che lavano le strade e da quasi due settimane la città giaceva tramortita sotto una pioggia esangue e senza nome
Il sentiero dei nidi di ragno (Italo Calvino): Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere dritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico.
L'ultimo cavaliere (Stephen King): L'uomo in nero fuggì nel deserto e il pistolero lo seguì.
IT (Stephen King): Il terrore che sarebbe durato ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato di sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.
I fratelli Karamazov (Fedor Dostoevskij): Aleksei Fedorovic Karamazov era il terzo figlio di un proprietario terriero del nostro distretto, Fedor Pavlovic Karamazov, assai noto ai suoi tempi (e del resto ancor oggi ricordato fra noi) per la sua tragica e oscura fine, avvenuta esattamente tredici anni fa e della quale parlerò a tempo debito.
Memorie dal sottosuolo (Fedor Dostoevskij): Sono un uomo malato...sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; bè, almeno abbastanza da rispettare la medicina.
1984 (George Orwell): Era una luminosa e fredda giornata d'aprile, e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui.
Una stagione all'inferno (Arthur Rimbaud): Un tempo, se ben mi ricordo, la mia vita era un festino dove si aprivano tutti i cuori, dove tutti i vini scorrevano. Una sera, ho fatto sedere la bellezza sulle mie ginocchia. -E l'ho trovata amara. E l'ho ingiuriata.
Ritratto di signora (Henry James): Sotto certi aspetti ci sono nella vita poche ore più piacevoli di quelle dedicate alla cerimonia del tè del pomeriggio.
Orgoglio e pregiudizio (Jane Austen): E' cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di grande fortuna sia in cerca di una moglie.
Emma (Jane austen): Emma Woodhouse, bella, intelligente e ricca, con una casa confortevole e un carattere allegro, sembrava riunire in sè il meglio che la vita può offrire e aveva quasi raggiunto i ventun'anni senza subire alcun dolore o grave dispiacere.
Guida galattica per gli autostoppisti (Douglas Adams): Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche dell'estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c'è un piccolo e insignificante sole giallo. A orbitare intorno ad esso, alla distanza di centoquarantanove milioni di chilometri, c'è un piccolo, trascurabilissimo pianeta azzurro-verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono così incredibilmente primitive che ancora credono che gli orologi da polso digitali siano un'ottima invenzione.
Le onde (Virginia Woolf): Il sole non si era ancora levato. Il mare non si distingueva dal cielo; era solo appena appena increspato, come un panno sgualcito. Pian piano, col cielo che si schiariva, si poggiò sull'orizzonte una linea scura che li divise, e il panno grigio si spezzò a forza di colpi veloci, che da sotto salivano in superficie incalzandosi, uno dietro l'altro, in un movimento perpetuo.
Per ora mi fermo.
Lo so, lo so. Non state a dirmi che questo non c'è, quest'altro nemmeno. Non è pensabile che metta tutti gli incipit più belli del mondo letterario, no? A parte quelli universalmente riconosciuti, bisogna anche considerare che ce ne sono alcuni che piacciono solo a poche persone e altri che non piacciono affatto, quindi vale sempre la vecchia regola "i gusti son gusti".
Accontentatevi e, magari, se vi lasciate incuriosire, potreste già scoprire libri che non pensavate di poter amare.
Anarchic Rain
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domenica 22 marzo 2015
Altro omaggio decisamente non riuscito
TITOLO: Bianca come il latte, rossa come il sangue
AUTORE: Alessandro D'Avenia
EDIZIONE: Mondadori
PAGINE: 254
VERSIONE LETTA: kindle
VALUTAZIONE IN DECIMI: 3
Come vi ho preannunciato (solo sulla pagina facebook), ho deciso di sputare un po' di veleno.
Purtroppo o per fortuna, scelgo sempre molto accuratamente i libri da leggere, per cui è raro che mi capitino "inconsapevolmente" delle vere schifezze.
Se tralasciamo i libri sciocchi letti per "dovere di cronaca", mi rimangono veramente pochi libri di cui (s)parlare.
Uno di questi è proprio il libro del titolo, un libro che ha venduto un boato di copie, da cui hanno persino tratto un film alla velocità della luce e che per fortuna ho potuto leggere aggratis senza spendere un euro.
Piccola premessa doverosa: non sono affatto contraria ai libri di questo genere: ho letto e pianto abbastanza per Lovestory (praticamente la fonte da cui TUTTI gli altri sono derivati) e Gridare amore dal centro del mondo, quindi non sono quel cuore di pietra che potreste pensare.
Detto questo passiamo a 'sto libro.
A parte che ha potuto fare successo solo perché ci sono le nuove generazioni che non sanno proprio niente, anche se fanno gli intellettuali su internet (facile eh?); a parte che dopo Moccia, Tuailait e le 50 sfumature, ormai si è capito che per vendere c'è bisogno di scrivere con i piedi.
Una storia banale. Già letta, già vista, insipida.
Ma potremmo anche passarci sopra, visto che ormai molto, per non dire tutto, è stato già raccontato. Il problema, che qualcuno ancora sembra non afferrare, è il modo in cui viene raccontato. E' lì che deve esserci l'originalità, è lì che deve annidarsi un genio. Se poi si riesce a creare una storia che sia originale e scritta bene, allora siamo nel campo dei miracoli.
Ma comunque non è il campo di questo libro, in nessuno dei due sensi.
Dicevo, lasciando da parte la banalità della storia, è la banalità della scrittura che mi ha irritato.
Si, proprio così, mi ha irritato. Non mi piace leggere un libro brutto e un libro scritto male è anche peggio. Similitudini scontate, pensieri anacronistici, pateticità a manciate.
Introspezione dei personaggi? Zero. Eppure offre molti spunti la storia. Invece è un semplice elenco di fatti, ogni tanto intervallato da frasette ad effetto che le adolescenti possono scrivere sul diario.
Il paragone con il ben più profondo Gridare amore dal centro del mondo (precedente a questo, sia chiaro) è immediato e forse anche un po' offensivo (per il secondo, ovviamente).
Mi chiedo: ma perché dobbiamo sempre farci riconoscere? Insomma, siamo la patria di Dante, porca miseria. Di Leopardi, di Calvino!! Possiamo scrivere cose bellissime e soprattutto cose che parlano di noi, cose che non possono prendere altri scrittori e portarli nei loro Paesi, cose che abbiamo solo noi. E invece ci ostiniamo a copiare qua e là qualsiasi cosa sia di stampo americano (preferenzialmente) o giapponese (il Giappone va fortissimo, negli ultimi anni).
Dal basso della mia carriera di lettrice, vorrei tanto prendere 'sti autori e dire loro: perché non scrivete quello che sapete? King dice che uno scrittore deve scrivere solo quello che sa e dice anche, molto saggiamente, che un libro va scritto prima a "porta chiusa" (ossia buttando giù solo quello che abbiamo dentro, ma dentro sul serio) e poi a "porta aperta" (ossia lasciando che le persone che amiamo influenzino anche solo con la loro presenza quello che finora abbiamo scritto).
L'ho sempre trovato un consiglio preziosissimo, se avessi del talento in tal senso credo che farei di tutto per seguirlo.
Ecco cosa vorrei dire loro.
Un'altra cosa: è inutile copiare: vi farà vendere all'inizio, ma i lettori veri se ne accorgono prima o poi e allora sarete finiti.
Magari mi sbaglio in questo caso, non lo so...ma io, lettrice media, non ho più nessuno stimolo a comprare un suo libro, dopo questa delusione.
Detto questo, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensa invece chi questo libro l'ha letto e l'ha apprezzato.
Magari riesce a farmelo vedere da un lato migliore.
Fino ad allora, permettetemi di dubitarne.
Anarchic Rain
AUTORE: Alessandro D'Avenia
EDIZIONE: Mondadori
PAGINE: 254
VERSIONE LETTA: kindle
VALUTAZIONE IN DECIMI: 3
Come vi ho preannunciato (solo sulla pagina facebook), ho deciso di sputare un po' di veleno.
Purtroppo o per fortuna, scelgo sempre molto accuratamente i libri da leggere, per cui è raro che mi capitino "inconsapevolmente" delle vere schifezze.
Se tralasciamo i libri sciocchi letti per "dovere di cronaca", mi rimangono veramente pochi libri di cui (s)parlare.
Uno di questi è proprio il libro del titolo, un libro che ha venduto un boato di copie, da cui hanno persino tratto un film alla velocità della luce e che per fortuna ho potuto leggere aggratis senza spendere un euro.
Piccola premessa doverosa: non sono affatto contraria ai libri di questo genere: ho letto e pianto abbastanza per Lovestory (praticamente la fonte da cui TUTTI gli altri sono derivati) e Gridare amore dal centro del mondo, quindi non sono quel cuore di pietra che potreste pensare.
Detto questo passiamo a 'sto libro.
A parte che ha potuto fare successo solo perché ci sono le nuove generazioni che non sanno proprio niente, anche se fanno gli intellettuali su internet (facile eh?); a parte che dopo Moccia, Tuailait e le 50 sfumature, ormai si è capito che per vendere c'è bisogno di scrivere con i piedi.
Una storia banale. Già letta, già vista, insipida.
Ma potremmo anche passarci sopra, visto che ormai molto, per non dire tutto, è stato già raccontato. Il problema, che qualcuno ancora sembra non afferrare, è il modo in cui viene raccontato. E' lì che deve esserci l'originalità, è lì che deve annidarsi un genio. Se poi si riesce a creare una storia che sia originale e scritta bene, allora siamo nel campo dei miracoli.
Ma comunque non è il campo di questo libro, in nessuno dei due sensi.
Dicevo, lasciando da parte la banalità della storia, è la banalità della scrittura che mi ha irritato.
Si, proprio così, mi ha irritato. Non mi piace leggere un libro brutto e un libro scritto male è anche peggio. Similitudini scontate, pensieri anacronistici, pateticità a manciate.
Introspezione dei personaggi? Zero. Eppure offre molti spunti la storia. Invece è un semplice elenco di fatti, ogni tanto intervallato da frasette ad effetto che le adolescenti possono scrivere sul diario.
Il paragone con il ben più profondo Gridare amore dal centro del mondo (precedente a questo, sia chiaro) è immediato e forse anche un po' offensivo (per il secondo, ovviamente).
Mi chiedo: ma perché dobbiamo sempre farci riconoscere? Insomma, siamo la patria di Dante, porca miseria. Di Leopardi, di Calvino!! Possiamo scrivere cose bellissime e soprattutto cose che parlano di noi, cose che non possono prendere altri scrittori e portarli nei loro Paesi, cose che abbiamo solo noi. E invece ci ostiniamo a copiare qua e là qualsiasi cosa sia di stampo americano (preferenzialmente) o giapponese (il Giappone va fortissimo, negli ultimi anni).
Dal basso della mia carriera di lettrice, vorrei tanto prendere 'sti autori e dire loro: perché non scrivete quello che sapete? King dice che uno scrittore deve scrivere solo quello che sa e dice anche, molto saggiamente, che un libro va scritto prima a "porta chiusa" (ossia buttando giù solo quello che abbiamo dentro, ma dentro sul serio) e poi a "porta aperta" (ossia lasciando che le persone che amiamo influenzino anche solo con la loro presenza quello che finora abbiamo scritto).
L'ho sempre trovato un consiglio preziosissimo, se avessi del talento in tal senso credo che farei di tutto per seguirlo.
Ecco cosa vorrei dire loro.
Un'altra cosa: è inutile copiare: vi farà vendere all'inizio, ma i lettori veri se ne accorgono prima o poi e allora sarete finiti.
Magari mi sbaglio in questo caso, non lo so...ma io, lettrice media, non ho più nessuno stimolo a comprare un suo libro, dopo questa delusione.
Detto questo, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensa invece chi questo libro l'ha letto e l'ha apprezzato.
Magari riesce a farmelo vedere da un lato migliore.
Fino ad allora, permettetemi di dubitarne.
Anarchic Rain
Quando gli opposti s'incontrano si genera una luce salvifica
TITOLO: Narciso e Boccadoro
AUTORE: Hermann Hesse
EDIZIONE: Mondadori
PAGINE:
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9
Un libro che mi riporta ad un pomeriggio di primavera inoltrata di più di quindici anni fa.
Un libro letto all'ombra di un pergolato, in montagna, con il sole alto e un vento fresco e piacevole.
Narciso e Boccadoro narra l'amicizia tra due ragazzi (poi uomini) molto diversi tra loro, come il sole e la luna, l'acqua e il fuoco. Due ragazzi che sarebbe lecito pensare non potrebbero mai essere amici, per la loro opposta natura, ma che invece, grazie a circostanze fortuite (anche se tristi) si conoscono e diventano necessari l'uno all'altro.
Narciso lo conosciamo subito come un giovane studioso modello, irreprensibile, molto più maturo della sua età, ma anche ambizioso e con una punta di presunzione.
Boccadoro ha l'anima di un fanciullo, che all'inizio si adatta più o meno volentieri al padre che lo vorrebbe prete, ma che scopre il suo totalmente diverso destino, proprio grazie a Narciso, che gli rivela la sua vera anima.
Quanto ho sognato durante i vagabondaggi di Boccadoro! Quanto avrei voluto poter partire anch'io così, all'avventura, senza dare spiegazioni, senza sentirmi legata a nulla.
Non è nemmeno da dire che i tempi sono un tantino diversi, oggi non si potrebbe più fare quello che ha fatto lui, il mondo non è un posto per vagabondi. Peccato.
Il libro è incentrato moltissimo su Boccadoro, che ha una vita avventurosa, mentre di Narciso si parla quasi marginalmente, anche se è con lui che inizia tutto. Ed è con lui che finisce tutto, come un cerchio che finalmente si può chiudere.
Boccadoro nei suoi anni di pellegrinaggio ha conosciuto moltissime persone, ha fatto esperienze (sia sessuali che spirituali) molto varie e di sicuro si è arricchito in più di un modo.
Narciso invece è rimasto nel convento e ha intrapreso la carriera ecclesiastica, diventando abate, pur essendo una creatura razionale e severa.
Quando i due si incontrano di nuovo, dopo lunghi anni di separazione, in un momento pericoloso per Boccadoro, non c'è niente di più bello che tornare insieme al convento che li aveva visti ragazzi e forse per un po' rivivere/vivere diversamente la loro decennale amicizia. Nessuno dei due ha mai dimenticato l'altro, ognuno avendo i propri ricordi scolpiti nel cuore, come una piccola fiammella accesa nella notte, che rischiara le tenebre e dà conforto.
Ma l'animo irrequieto e orgoglioso di Boccadoro lo allontana di nuovo da Narciso e quando, infine, vi ritorna è profondamente malato, stavolta nel corpo. Mentre lo vediamo agonizzante, costantemente vegliato dall'amico di sempre, Boccadoro non può fare a meno di ricordare sua madre, che rappresenta la sua stessa natura, come Narciso gli ha spiegato agli albori della loro amicizia.
E, pochi giorni prima di morire, Boccadoro regala all'amico delle parole stupende, ma taglienti come diamanti:
Ma come puoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare, senza madre non si può morire.
Finalmente Boccadoro, l'eterno fanciullo, ha accettato la differenza fondamentale tra lui e l'amico, l'ha riconosciuta e ne è stato persino felice: ha riconosciuto la bellezza insita nelle due nature (materiale e spirituale, orientale e occidentale, maschile e femminile) ed ha compreso che ogni vita può essere stupenda, qualcuna più, qualcuna meno, ma tutte sono uniche e degne di essere vissute.
In punto di morte, se già non molto prima, si è liberato delle catene che fin dall'infanzia lo imprigionavano nei sensi di colpa ed è riuscito a vivere pienamente, compiendo il suo destino.
Quello che non ci viene raccontato, è quello che Narciso affronta dopo la morte del suo opposto e complemento. Probabilmente un dolore atroce, ma forse, in fondo al dolore, anche la gioia di aver potuto conoscere e amare un'anima così giovane e libera, l'esatto contrario della sua.
Un libro da leggere e da rileggere, che scava a fondo nell'animo di ciascuno di noi, ma con gentilezza, e mette a nudo i nostri più profondi sentimenti.
Anarchic Rain
AUTORE: Hermann Hesse
EDIZIONE: Mondadori
PAGINE:
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9
Un libro che mi riporta ad un pomeriggio di primavera inoltrata di più di quindici anni fa.
Un libro letto all'ombra di un pergolato, in montagna, con il sole alto e un vento fresco e piacevole.
Narciso e Boccadoro narra l'amicizia tra due ragazzi (poi uomini) molto diversi tra loro, come il sole e la luna, l'acqua e il fuoco. Due ragazzi che sarebbe lecito pensare non potrebbero mai essere amici, per la loro opposta natura, ma che invece, grazie a circostanze fortuite (anche se tristi) si conoscono e diventano necessari l'uno all'altro.
Narciso lo conosciamo subito come un giovane studioso modello, irreprensibile, molto più maturo della sua età, ma anche ambizioso e con una punta di presunzione.
Boccadoro ha l'anima di un fanciullo, che all'inizio si adatta più o meno volentieri al padre che lo vorrebbe prete, ma che scopre il suo totalmente diverso destino, proprio grazie a Narciso, che gli rivela la sua vera anima.
Quanto ho sognato durante i vagabondaggi di Boccadoro! Quanto avrei voluto poter partire anch'io così, all'avventura, senza dare spiegazioni, senza sentirmi legata a nulla.
Non è nemmeno da dire che i tempi sono un tantino diversi, oggi non si potrebbe più fare quello che ha fatto lui, il mondo non è un posto per vagabondi. Peccato.
Il libro è incentrato moltissimo su Boccadoro, che ha una vita avventurosa, mentre di Narciso si parla quasi marginalmente, anche se è con lui che inizia tutto. Ed è con lui che finisce tutto, come un cerchio che finalmente si può chiudere.
Boccadoro nei suoi anni di pellegrinaggio ha conosciuto moltissime persone, ha fatto esperienze (sia sessuali che spirituali) molto varie e di sicuro si è arricchito in più di un modo.
Narciso invece è rimasto nel convento e ha intrapreso la carriera ecclesiastica, diventando abate, pur essendo una creatura razionale e severa.
Quando i due si incontrano di nuovo, dopo lunghi anni di separazione, in un momento pericoloso per Boccadoro, non c'è niente di più bello che tornare insieme al convento che li aveva visti ragazzi e forse per un po' rivivere/vivere diversamente la loro decennale amicizia. Nessuno dei due ha mai dimenticato l'altro, ognuno avendo i propri ricordi scolpiti nel cuore, come una piccola fiammella accesa nella notte, che rischiara le tenebre e dà conforto.
Ma l'animo irrequieto e orgoglioso di Boccadoro lo allontana di nuovo da Narciso e quando, infine, vi ritorna è profondamente malato, stavolta nel corpo. Mentre lo vediamo agonizzante, costantemente vegliato dall'amico di sempre, Boccadoro non può fare a meno di ricordare sua madre, che rappresenta la sua stessa natura, come Narciso gli ha spiegato agli albori della loro amicizia.
E, pochi giorni prima di morire, Boccadoro regala all'amico delle parole stupende, ma taglienti come diamanti:
Ma come puoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare, senza madre non si può morire.
Finalmente Boccadoro, l'eterno fanciullo, ha accettato la differenza fondamentale tra lui e l'amico, l'ha riconosciuta e ne è stato persino felice: ha riconosciuto la bellezza insita nelle due nature (materiale e spirituale, orientale e occidentale, maschile e femminile) ed ha compreso che ogni vita può essere stupenda, qualcuna più, qualcuna meno, ma tutte sono uniche e degne di essere vissute.
In punto di morte, se già non molto prima, si è liberato delle catene che fin dall'infanzia lo imprigionavano nei sensi di colpa ed è riuscito a vivere pienamente, compiendo il suo destino.
Quello che non ci viene raccontato, è quello che Narciso affronta dopo la morte del suo opposto e complemento. Probabilmente un dolore atroce, ma forse, in fondo al dolore, anche la gioia di aver potuto conoscere e amare un'anima così giovane e libera, l'esatto contrario della sua.
Un libro da leggere e da rileggere, che scava a fondo nell'animo di ciascuno di noi, ma con gentilezza, e mette a nudo i nostri più profondi sentimenti.
Anarchic Rain
sabato 21 marzo 2015
Il realismo magico di un grande autore giapponese
TITOLO: 1Q84
AUTORE: Haruki Murakami
EDIZIONE: Einaudi
PAGINE: 1170
VERSIONE LETTA: cartacea e kindle
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9 e mezzo
Certo che a me le cose semplici non piacciono proprio, eh.
Come ormai sanno pure le stalattiti, amo questo autore. Ha scritto dei romanzi e dei racconti che sono tra le cose più belle che ho mai letto e, al di là del singolo preferito che posso avere, è sempre la sua poetica ad affascinarmi come prima cosa. Una poetica che molto ha a che fare con le profondità dell'animo e molto poco con la realtà, ma è anche vero che nasce dalla realtà stessa, per poi distaccarsene.
E' quasi come se, pur partendo da ciò che si può vedere/toccare/sentire, ha bisogno di allontanarsene per capirlo in maniera più profonda. E anche più limpida.
Ma torniamo al libro.
E' una trilogia, in realtà, e il titolo è un chiaro riferimento al libro di Orwell, riferimento facilmente intuibile persino da chi non sa che in giapponese "nove" si dice "kyu", che in inglese è la fonetica di Q. Insomma, parte già arzigogolato dal titolo.
E il romanzo lo è peggio, se possibile. Ma ovviamente non in senso dispregiativo.
E' scritto da due punti di vista differenti. Il narratore è sempre uno, ma segue in parallelo due storie che fino alla fine del primo libro non si incontrano mai: quella di Tengo, trent'anni, professore di matematica e scrittore, e quella di Aomame, ventinove anni, istruttrice di arti marziali e serial killer all'occorrenza.
Un duo improbabile e sospetto, quasi.
Ma Murakami ci trascina dentro la storia fin dalla prima riga, come se improvvisamente e inavvertitamente fossimo scivolati al centro di una spirale: noi siamo fermi, ma intorno ci si svolge qualcosa, che stranamente assomiglia alla vita.
Lo so, sto contravvenendo alla regola prima dello zio King nel libro On writing, ossia Non esagerate con gli avverbi.
Ma, come lui stesso ebbe a dire poche pagine più tardi, a volte sono necessari.
E' vero che Tengo ed Aomame non si incontrano nel primo libro, ma le loro vite sembrano intrecciate e addirittura sembra che da bambini si conoscessero. O perlomeno si ha questa impressione, ma è troppo vaga e i riferimenti sono un po' confusi. A volte sembra proprio che vivano in due mondi diversi. Per non parlare del fatto che lei, la sera, vede due lune. E che pensa di essere capitata in un altro mondo, diciamo "parallelo" a quello vero, che chiama appunto 1Q84.
Questo primo libro fa il suo dovere: ci proietta nella vita di due persone e ci incuriosisce e ci spinge a cercare di sapere qualcosa in più.
Anzi. Tutto di più.
La cosa che più mi ha affascinato di entrambi i protagonisti (ma questo vale praticamente per tutti i personaggi di Murakami) è che sono persone molto riflessive, con un mondo esteriore non particolarmente appariscente, mentre al contrario quello interiore è vastissimo, forse infinito.
Sembrano spettatori "inconsapevoli" e "inermi" all'inizio, ma quando è il momento sanno prendere in mano la situazione.
Da Tengo ed Aomame ci aspettiamo proprio quello, perché nonostante le loro (numerose) ferite sappiamo (o crediamo di sapere) quello che realmente valgono.
Se posso trovare un difettuccio al primo libro è questo: ci sono alcuni capitoli (non più di tre, al massimo quattro, se non ricordo male) che si ripetono parecchio. Dicono le stesse cose o meglio, partono dalle stesse cose e poi magari qualche altra mezza informazione la aggiungono...un po' mi ha dato fastidio, perché sembrava spezzasse il ritmo della narrazione, ma relativamente poco.
E poi arriva il secondo.
Con il secondo entrano in gioco altri personaggi, alcuni già visti nel primo, ma che diventano man mano più importanti: Fukaeri, la ragazza il cui libro è stato riscritto da Tengo, il Leader, misterioso e magnetico capo di una setta religiosa, Ushikawa, un essere infido e viscido.
Mentre comprendiamo di più le personalità di Tengo e di Aomame, che ormai (lo sappiamo) sono a un passo dall'incontrarsi.
Ma, cosa più importante, siamo ormai sicuri che il mondo in cui i due si trovano è davvero il 1Q84. Ma forse "si trovano" non è il verbo adatto. In realtà sarebbe meglio dire "ci sono stati portati".
Da chi, vi chiederete. Dal destino, potrebbe essere una buona risposta.
Mentre scorrono le pagine, inoltre, la creatura fredda e rigida che è Aomame, finalmente, comincia ad assumere connotati più "umani", più "emozionali" e quasi la vediamo circondata da un immenso amore, che è quello che prova per Tengo. E' un processo all'inizio lento, poi arriva di botto tutto insieme, come una diga che si rompe. Ed è davvero affascinante e commovente.
Con questo secondo libro si arriva ad un climax abbastanza veloce (nonostante le sue oltre trecento pagine, nell'edizione Einaudi in tre libri e cofanetto), che però rimane sospeso, saltando dritto nelle pagine del terzo e ultimo.
Si rimane col fiato corto, quasi gli occhi cercassero altre parole là dove non ce ne sono più, di certo increduli che l'autore abbia avuto cuore di lasciarli in bilico sull'abisso, senza sapere se si ritroveranno a cadere o verranno salvati all'ultimo.
In ultimo, il terzo libro.
Ho dovuto prendermi una pausa tra il secondo e l'ultimo. Non sono riuscita ad andare dritta al terzo, a vedere quale fine Murakami avesse riservato ai protagonisti. Avevo bisogno di una boccata d'aria (che ho preso con Suite francese) e poi ho ricominciato.
Ho praticamente letto tutto d'un fiato la prima metà del libro, che è coinvolgente e più "spezzata" dei due precedenti, in quanto non sono solo i capitoli di Tengo e Aomame ad alternarsi, ma si inserisce anche quello di Ushikawa, che diventa forse più sgradevole di prima (se possibile), anche se assume connotati più umani (persino lui).
Inoltre quest'ultimo libro appare pervaso fin dall'inizio da due sentimenti contrastanti: ineluttabilità da una parte (sappiamo che si arriverà al culmine, i protagonisti non possono sottrarsi al loro destino) e tensione irrisolta dall'altro (questo culmine sembra non arrivare mai, è come se si facessero decine di piccoli preparativi, ma il dunque sfuggisse sempre, per un soffio).
Invece il culmine arriva e tutto si spiega: per me, è stata una rivelazione sconvolgente, anche se mi rendo conto che non farà a tutti lo stesso effetto...il libro, in realtà, o i libri, se preferite, non sono altro che una storia d'amore.
Il riassunto più breve che si possa fare è: due persone, legate fin dalla loro infanzia da un legame invisibile e indissolubile, attraversano difficoltà, pericoli e addirittura altri mondi, per giungere finalmente "a casa", nelle braccia l'uno dell'altra.
Detta così potrebbe anche significare un romanzo da poco, come ce ne sono tanti.
Invece, 1Q84 è un romanzo da molto, come ce ne sono pochi.
Un capolavoro, posso dirlo? Io non lo dico spesso. E anche se lo dicessi spesso, applicato a questo romanzo lo direi due volte. Un capolavoro.
Voglio essere ripetitiva: fatevi un favore e leggetelo. Magari all'inizio, se non sapete nulla di questo autore, vi sembrerà strano, ma forse anche partire da questa lunghissima dichiarazione d'amore non sarà male.
Io sono ancora un po' sotto shock, ma in senso più che buono.
Leggetelo e fatemi sapere che cosa ne pensate.
Adesso vado a cercare di ricordarmi come respirare.
Anarchic Rain
AUTORE: Haruki Murakami
EDIZIONE: Einaudi
PAGINE: 1170
VERSIONE LETTA: cartacea e kindle
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9 e mezzo
Certo che a me le cose semplici non piacciono proprio, eh.
Come ormai sanno pure le stalattiti, amo questo autore. Ha scritto dei romanzi e dei racconti che sono tra le cose più belle che ho mai letto e, al di là del singolo preferito che posso avere, è sempre la sua poetica ad affascinarmi come prima cosa. Una poetica che molto ha a che fare con le profondità dell'animo e molto poco con la realtà, ma è anche vero che nasce dalla realtà stessa, per poi distaccarsene.
E' quasi come se, pur partendo da ciò che si può vedere/toccare/sentire, ha bisogno di allontanarsene per capirlo in maniera più profonda. E anche più limpida.
Ma torniamo al libro.
E' una trilogia, in realtà, e il titolo è un chiaro riferimento al libro di Orwell, riferimento facilmente intuibile persino da chi non sa che in giapponese "nove" si dice "kyu", che in inglese è la fonetica di Q. Insomma, parte già arzigogolato dal titolo.
E il romanzo lo è peggio, se possibile. Ma ovviamente non in senso dispregiativo.
E' scritto da due punti di vista differenti. Il narratore è sempre uno, ma segue in parallelo due storie che fino alla fine del primo libro non si incontrano mai: quella di Tengo, trent'anni, professore di matematica e scrittore, e quella di Aomame, ventinove anni, istruttrice di arti marziali e serial killer all'occorrenza.
Un duo improbabile e sospetto, quasi.
Ma Murakami ci trascina dentro la storia fin dalla prima riga, come se improvvisamente e inavvertitamente fossimo scivolati al centro di una spirale: noi siamo fermi, ma intorno ci si svolge qualcosa, che stranamente assomiglia alla vita.
Lo so, sto contravvenendo alla regola prima dello zio King nel libro On writing, ossia Non esagerate con gli avverbi.
Ma, come lui stesso ebbe a dire poche pagine più tardi, a volte sono necessari.
E' vero che Tengo ed Aomame non si incontrano nel primo libro, ma le loro vite sembrano intrecciate e addirittura sembra che da bambini si conoscessero. O perlomeno si ha questa impressione, ma è troppo vaga e i riferimenti sono un po' confusi. A volte sembra proprio che vivano in due mondi diversi. Per non parlare del fatto che lei, la sera, vede due lune. E che pensa di essere capitata in un altro mondo, diciamo "parallelo" a quello vero, che chiama appunto 1Q84.
Questo primo libro fa il suo dovere: ci proietta nella vita di due persone e ci incuriosisce e ci spinge a cercare di sapere qualcosa in più.
Anzi. Tutto di più.
La cosa che più mi ha affascinato di entrambi i protagonisti (ma questo vale praticamente per tutti i personaggi di Murakami) è che sono persone molto riflessive, con un mondo esteriore non particolarmente appariscente, mentre al contrario quello interiore è vastissimo, forse infinito.
Sembrano spettatori "inconsapevoli" e "inermi" all'inizio, ma quando è il momento sanno prendere in mano la situazione.
Da Tengo ed Aomame ci aspettiamo proprio quello, perché nonostante le loro (numerose) ferite sappiamo (o crediamo di sapere) quello che realmente valgono.
Se posso trovare un difettuccio al primo libro è questo: ci sono alcuni capitoli (non più di tre, al massimo quattro, se non ricordo male) che si ripetono parecchio. Dicono le stesse cose o meglio, partono dalle stesse cose e poi magari qualche altra mezza informazione la aggiungono...un po' mi ha dato fastidio, perché sembrava spezzasse il ritmo della narrazione, ma relativamente poco.
E poi arriva il secondo.
Con il secondo entrano in gioco altri personaggi, alcuni già visti nel primo, ma che diventano man mano più importanti: Fukaeri, la ragazza il cui libro è stato riscritto da Tengo, il Leader, misterioso e magnetico capo di una setta religiosa, Ushikawa, un essere infido e viscido.
Mentre comprendiamo di più le personalità di Tengo e di Aomame, che ormai (lo sappiamo) sono a un passo dall'incontrarsi.
Ma, cosa più importante, siamo ormai sicuri che il mondo in cui i due si trovano è davvero il 1Q84. Ma forse "si trovano" non è il verbo adatto. In realtà sarebbe meglio dire "ci sono stati portati".
Da chi, vi chiederete. Dal destino, potrebbe essere una buona risposta.
Mentre scorrono le pagine, inoltre, la creatura fredda e rigida che è Aomame, finalmente, comincia ad assumere connotati più "umani", più "emozionali" e quasi la vediamo circondata da un immenso amore, che è quello che prova per Tengo. E' un processo all'inizio lento, poi arriva di botto tutto insieme, come una diga che si rompe. Ed è davvero affascinante e commovente.
Con questo secondo libro si arriva ad un climax abbastanza veloce (nonostante le sue oltre trecento pagine, nell'edizione Einaudi in tre libri e cofanetto), che però rimane sospeso, saltando dritto nelle pagine del terzo e ultimo.
Si rimane col fiato corto, quasi gli occhi cercassero altre parole là dove non ce ne sono più, di certo increduli che l'autore abbia avuto cuore di lasciarli in bilico sull'abisso, senza sapere se si ritroveranno a cadere o verranno salvati all'ultimo.
In ultimo, il terzo libro.
Ho dovuto prendermi una pausa tra il secondo e l'ultimo. Non sono riuscita ad andare dritta al terzo, a vedere quale fine Murakami avesse riservato ai protagonisti. Avevo bisogno di una boccata d'aria (che ho preso con Suite francese) e poi ho ricominciato.
Ho praticamente letto tutto d'un fiato la prima metà del libro, che è coinvolgente e più "spezzata" dei due precedenti, in quanto non sono solo i capitoli di Tengo e Aomame ad alternarsi, ma si inserisce anche quello di Ushikawa, che diventa forse più sgradevole di prima (se possibile), anche se assume connotati più umani (persino lui).
Inoltre quest'ultimo libro appare pervaso fin dall'inizio da due sentimenti contrastanti: ineluttabilità da una parte (sappiamo che si arriverà al culmine, i protagonisti non possono sottrarsi al loro destino) e tensione irrisolta dall'altro (questo culmine sembra non arrivare mai, è come se si facessero decine di piccoli preparativi, ma il dunque sfuggisse sempre, per un soffio).
Invece il culmine arriva e tutto si spiega: per me, è stata una rivelazione sconvolgente, anche se mi rendo conto che non farà a tutti lo stesso effetto...il libro, in realtà, o i libri, se preferite, non sono altro che una storia d'amore.
Il riassunto più breve che si possa fare è: due persone, legate fin dalla loro infanzia da un legame invisibile e indissolubile, attraversano difficoltà, pericoli e addirittura altri mondi, per giungere finalmente "a casa", nelle braccia l'uno dell'altra.
Detta così potrebbe anche significare un romanzo da poco, come ce ne sono tanti.
Invece, 1Q84 è un romanzo da molto, come ce ne sono pochi.
Un capolavoro, posso dirlo? Io non lo dico spesso. E anche se lo dicessi spesso, applicato a questo romanzo lo direi due volte. Un capolavoro.
Voglio essere ripetitiva: fatevi un favore e leggetelo. Magari all'inizio, se non sapete nulla di questo autore, vi sembrerà strano, ma forse anche partire da questa lunghissima dichiarazione d'amore non sarà male.
Io sono ancora un po' sotto shock, ma in senso più che buono.
Leggetelo e fatemi sapere che cosa ne pensate.
Adesso vado a cercare di ricordarmi come respirare.
Anarchic Rain
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lunedì 16 marzo 2015
Quando leggerezza non vuol dire superficialità: una lezione giapponese
TITOLO: Kitchen
AUTORE: Banana Yoshimoto
EDIZIONE: Feltrinelli
PAGINE: 148
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9 e mezzo
Quando le cose bisogna dirle, bisogna dirle e basta.
Avevo paura di leggere questo libro. Dal punto di vista letterario, è stata la prima autrice nipponica a cui mi sono avvicinata e, siccome sapevo che Kitchen era il suo romanzo d'esordio, straordinario successo in tutto il mondo, avevo davvero paura che non mi piacesse (per quale strano e razionale motivo, poi, non so).
Così, il primo libro della Yoshimoto che ho letto non è stato questo, ma Tsugumi, molto meno conosciuto e chiacchierato. Insomma, volevo fare una specie di prova, prima.
Poiché mi piacque, decisi di leggere finalmente Kitchen.
Kitchen è un libro minuscolo. In realtà è costituito da due racconti, uno lungo, uno molto più breve, a chiusura di libro.
La bellezza di questo piccolo gioiellino è la sua delicatezza. Le frasi, l'articolazione delle descrizioni e dei dialoghi sono lievi come un sospiro. Un venticello primaverile che soffia tra i fiori di ciliegio.
Non è un romanzo che dà risposte, al limite pone molte domande, non vuole essere definitivo, ma rimane sospeso come un'amaca su un giardino assolato.
I temi del racconto, nonostante la sua brevità, sono molti e non sono assolutamente trattati in maniera superficiale. Amore, morte, elaborazione del lutto, ingiustizia, passioni, amicizia, solitudine, sessualità.
Questo perché la Yoshimoto sa come stringare al minimo un concetto, strizzare fuori tutte le parole inutili e lasciare solo il cuore del significato. Non servono tutte le parole del mondo (né tutti gli avverbi) per esprimere un sentimento, ma solo quelle giuste, quando si trovano.
E questa autrice pare trovarle sempre.
A me è bastata la frase iniziale per innamorarmi:
Non c'è luogo al mondo che io ami più della cucina.
E non venitemi a dire che non volete saperne di più.
Magari vi immaginate una protagonista cicciona che è interessata solo al cibo. O un'anoressica ossessionata.
Forse all'inizio, leggendolo, non comprenderete nemmeno la sua passione, perché in fondo la cucina oggi non è quel luogo di ritrovo che era prima, oggi è quasi un luogo di appendice. Ma la nostra protagonista la mette al centro della sua scena, come luogo della famiglia, un luogo in cui si sente al sicuro e protetta, in cui non c'è altro suono che il ronzio del frigo o l'acqua che scorre o il pranzo/la cena che bolle.
Un luogo pacifico, che la aiuta durante il periodo più nero della sua vita, ma anche il posto a partire dal quale giudicare le persone, il loro carattere, la loro predisposizione alla vita.
Questo racconto è tipicamente giapponese. L'attenzione per le piccole cose, i silenzi, gli sguardi, le timidezze. Sono cose che noi occidentali non possiamo capire. Mi ci metto anch'io perché, nonostante ami da morire quel Paese e mi vanti di capire meglio di altri i suoi sottintesi, non posso comprenderlo fino in fondo. E' vero che anche questo fa parte del suo fascino, ma è una cosa che mi fa un po' soffrire.
Non lo capisco, ma quando leggo mi sembra di avvicinarmi un po' di più al suo modo di pensare, mi sembra che la mia mente si apra e colga riferimenti e stati d'animo che da sola non sarei riuscita a cogliere. E i libri della Yoshimoto sono spettacolari in questo: spesso i critici hanno definito il suo stile come una specie di manga in prosa, a volte con accezione negativa, ma in realtà è proprio questo. I suoi racconti hanno la freschezza del manga, il suo linguaggio semplice ma d'effetto, le sue atmosfere leggere anche quando si tratta di argomenti profondi.
In questo l'autrice è molto, molto diversa da Murakami (e anche da Mishima) ma non posso dire in meglio o in peggio, semplicemente perché per me non sono proprio paragonabili.
E' come se lei ti offrisse un posto caldo e luminoso per pensare alle cose brutte, per elaborare un lutto o per parlare con il tuo ragazzo. Il tutto senza drammi particolari perché, ricordiamocelo, la vita è fatta di cose belle e di cose brutte e in fondo va anche bene così.
Mikage è una ragazza sfortunata alla quale sono capitati molti lutti (genitori prima e nonna poi), che l'hanno lasciata sola al mondo. Ma non per questo si è mai scoraggiata, nonostante gli ovvi momenti di sconforto di tanto in tanto.
Rispetto ad altri lavori della Yoshimoto, Kitchen è ottimista, lascia sempre uno spiraglio di luce (e quindi di speranza), senza contare il lieto fine, che quasi sembra sfuggire, ma poi arriva e ci fa tirare un sospiro di sollievo.
Perché leggere Kitchen? Perché secondo me insegna a prendere la vita come viene, senza troppi problemi, pippe mentali e soprattutto senza falsità. Tanto i drammi accadranno sempre, che noi siamo pronti o no, ma se cerchiamo di viverli il più serenamente possibile magari ci accorgeremo che davvero tutto passa e noi siamo sempre qui.
Anarchic Rain
AUTORE: Banana Yoshimoto
EDIZIONE: Feltrinelli
PAGINE: 148
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9 e mezzo
Quando le cose bisogna dirle, bisogna dirle e basta.
Avevo paura di leggere questo libro. Dal punto di vista letterario, è stata la prima autrice nipponica a cui mi sono avvicinata e, siccome sapevo che Kitchen era il suo romanzo d'esordio, straordinario successo in tutto il mondo, avevo davvero paura che non mi piacesse (per quale strano e razionale motivo, poi, non so).
Così, il primo libro della Yoshimoto che ho letto non è stato questo, ma Tsugumi, molto meno conosciuto e chiacchierato. Insomma, volevo fare una specie di prova, prima.
Poiché mi piacque, decisi di leggere finalmente Kitchen.
Kitchen è un libro minuscolo. In realtà è costituito da due racconti, uno lungo, uno molto più breve, a chiusura di libro.
La bellezza di questo piccolo gioiellino è la sua delicatezza. Le frasi, l'articolazione delle descrizioni e dei dialoghi sono lievi come un sospiro. Un venticello primaverile che soffia tra i fiori di ciliegio.
Non è un romanzo che dà risposte, al limite pone molte domande, non vuole essere definitivo, ma rimane sospeso come un'amaca su un giardino assolato.
I temi del racconto, nonostante la sua brevità, sono molti e non sono assolutamente trattati in maniera superficiale. Amore, morte, elaborazione del lutto, ingiustizia, passioni, amicizia, solitudine, sessualità.
Questo perché la Yoshimoto sa come stringare al minimo un concetto, strizzare fuori tutte le parole inutili e lasciare solo il cuore del significato. Non servono tutte le parole del mondo (né tutti gli avverbi) per esprimere un sentimento, ma solo quelle giuste, quando si trovano.
E questa autrice pare trovarle sempre.
A me è bastata la frase iniziale per innamorarmi:
Non c'è luogo al mondo che io ami più della cucina.
E non venitemi a dire che non volete saperne di più.
Magari vi immaginate una protagonista cicciona che è interessata solo al cibo. O un'anoressica ossessionata.
Forse all'inizio, leggendolo, non comprenderete nemmeno la sua passione, perché in fondo la cucina oggi non è quel luogo di ritrovo che era prima, oggi è quasi un luogo di appendice. Ma la nostra protagonista la mette al centro della sua scena, come luogo della famiglia, un luogo in cui si sente al sicuro e protetta, in cui non c'è altro suono che il ronzio del frigo o l'acqua che scorre o il pranzo/la cena che bolle.
Un luogo pacifico, che la aiuta durante il periodo più nero della sua vita, ma anche il posto a partire dal quale giudicare le persone, il loro carattere, la loro predisposizione alla vita.
Questo racconto è tipicamente giapponese. L'attenzione per le piccole cose, i silenzi, gli sguardi, le timidezze. Sono cose che noi occidentali non possiamo capire. Mi ci metto anch'io perché, nonostante ami da morire quel Paese e mi vanti di capire meglio di altri i suoi sottintesi, non posso comprenderlo fino in fondo. E' vero che anche questo fa parte del suo fascino, ma è una cosa che mi fa un po' soffrire.
Non lo capisco, ma quando leggo mi sembra di avvicinarmi un po' di più al suo modo di pensare, mi sembra che la mia mente si apra e colga riferimenti e stati d'animo che da sola non sarei riuscita a cogliere. E i libri della Yoshimoto sono spettacolari in questo: spesso i critici hanno definito il suo stile come una specie di manga in prosa, a volte con accezione negativa, ma in realtà è proprio questo. I suoi racconti hanno la freschezza del manga, il suo linguaggio semplice ma d'effetto, le sue atmosfere leggere anche quando si tratta di argomenti profondi.
In questo l'autrice è molto, molto diversa da Murakami (e anche da Mishima) ma non posso dire in meglio o in peggio, semplicemente perché per me non sono proprio paragonabili.
E' come se lei ti offrisse un posto caldo e luminoso per pensare alle cose brutte, per elaborare un lutto o per parlare con il tuo ragazzo. Il tutto senza drammi particolari perché, ricordiamocelo, la vita è fatta di cose belle e di cose brutte e in fondo va anche bene così.
Mikage è una ragazza sfortunata alla quale sono capitati molti lutti (genitori prima e nonna poi), che l'hanno lasciata sola al mondo. Ma non per questo si è mai scoraggiata, nonostante gli ovvi momenti di sconforto di tanto in tanto.
Rispetto ad altri lavori della Yoshimoto, Kitchen è ottimista, lascia sempre uno spiraglio di luce (e quindi di speranza), senza contare il lieto fine, che quasi sembra sfuggire, ma poi arriva e ci fa tirare un sospiro di sollievo.
Perché leggere Kitchen? Perché secondo me insegna a prendere la vita come viene, senza troppi problemi, pippe mentali e soprattutto senza falsità. Tanto i drammi accadranno sempre, che noi siamo pronti o no, ma se cerchiamo di viverli il più serenamente possibile magari ci accorgeremo che davvero tutto passa e noi siamo sempre qui.
Anarchic Rain
giovedì 12 marzo 2015
Romanzo americano su un Giappone dimenticato
TITOLO: Memorie di una geisha
AUTORE: Arthur Golden
EDIZIONE: TEA
PAGINE: 574
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 7
Eh si, devo ammetterlo. Ho visto prima il film e poi ho letto il libro.
In alcuni casi è una svista che può essere fatale. Questo è uno di quei casi.
Piccola, solita premessa: io amo il Giappone (lo so, lo so, sembra diventata una moda di 'sti tempi, ma io lo amavo da prima, però vabbè, chissenefrega) e quindi, come ogni rispettato (e rispettoso) topo di biblioteca, ho sempre cercato di leggere/vedere cose che lo riguardassero, da ogni punto di vista. Ma la cosa che mi attira di più è sicuramente la sua cultura.
Una cultura che va al di là del manga (che comunque leggo in abbondanza), delle solite immagini dell'incrocio di Shibuya, di Hachiko e dei pendolari che dormono appena si appoggiano in metropolitana.
Una cultura che comprende cose che ancora ci sono perlopiù sconosciute o tenute nascoste, in un certo modo, con la tipica riservatezza degli orientali.
Una di queste è proprio il mondo delle geisha.
Tornando a noi, quando uscì il film, per i motivi di cui sopra, non potei non vederlo. Una volta al cinema, nei titoli di testa, scoprii che era stato tratto da un libro.
Inutile dire che il giorno dopo mi fiondai in libreria a comprarlo.
E lo lessi d'un fiato.
Se il film era stato grandioso (per fotografia e colonna sonora, se non altro), il libro è davvero ben scritto. In parte biografico, scritto dopo varie interviste ad una ex-geisha di Kyoto ormai naturalizzata americana, in parte romanzato.
E' questa la prima cosa che mi ha dato fastidio.
Insomma, speravo che il libro mi aprisse uno spiraglio sul mondo segreto e misterioso delle geisha, queste "artiste" istruite e raffinate, per le quali ogni gesto doveva esprimere perfezione, ma non solo ogni gesto, ogni respiro, ogni più sottile capello, e invece sono rimasta un po' delusa.
Come ho detto, il libro è scritto bene, scorre veloce e la storia è dolce, a tratti avvincente, ma purtroppo è davvero troppo americanizzata. Magari è davvero andata così, a grandi linee, ma non posso fare a meno di pensare che se avesse scritto la storia vera, senza abbellimenti da scrittore, il libro stesso ne avrebbe giovato e la lettura sarebbe stata più bella e istruttiva.
Insomma, se io voglio leggere qualcosa che mi parli del Giappone, preferisco che vengano usate parole e metafore ed espressioni tipiche giapponesi. Non mi piace di certo che uno scrittore occidentale esprima gli stessi concetti adattandoli a lettori occidentali. Non c'è verità altrimenti. E al libro manca questo. Verità, freschezza, malinconia. Tutte qualità di cui invece la letteratura giapponese è piena.
Non starò qui a fare il paragone con gli autori nipponici, ma è lampante come il sole che questo libro non è stato scritto da uno di loro.
Forse avrebbe venduto di meno, ma sarebbe stato sicuramente più bello...
Però devo ammettere che, quando ho letto l'ultima parola, ho chiuso la copertina e mi sono sentita bene. E' raro che legga libri che finiscono con "e vissero tutti felici e contenti" e ogni tanto mi dimentico che anche un lieto fine può essere appagante. Diciamo che quando tutto si aggiusta, quando veniamo a sapere che Sayuri e il Presidente sono stati insieme tutta la vita (nonostante lui avesse comunque la moglie ufficiale), sentiamo che ogni cosa è come doveva essere e che le deviazioni che uno prende nella vita possono allontanarlo dalla meta ma non per sempre.
Un pensiero confortante, converrete con me.
I latini dicevano che in medio stat virtus, poi vai a capire se è vero, ma pare che perlopiù c'azzeccassero.
Quindi il mio consiglio è "leggetelo", perché non vi farà male, ma ricordate che i libri che vi fanno veramente bene sono altri.
Anarchic Rain
AUTORE: Arthur Golden
EDIZIONE: TEA
PAGINE: 574
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 7
Eh si, devo ammetterlo. Ho visto prima il film e poi ho letto il libro.
In alcuni casi è una svista che può essere fatale. Questo è uno di quei casi.
Piccola, solita premessa: io amo il Giappone (lo so, lo so, sembra diventata una moda di 'sti tempi, ma io lo amavo da prima, però vabbè, chissenefrega) e quindi, come ogni rispettato (e rispettoso) topo di biblioteca, ho sempre cercato di leggere/vedere cose che lo riguardassero, da ogni punto di vista. Ma la cosa che mi attira di più è sicuramente la sua cultura.
Una cultura che va al di là del manga (che comunque leggo in abbondanza), delle solite immagini dell'incrocio di Shibuya, di Hachiko e dei pendolari che dormono appena si appoggiano in metropolitana.
Una cultura che comprende cose che ancora ci sono perlopiù sconosciute o tenute nascoste, in un certo modo, con la tipica riservatezza degli orientali.
Una di queste è proprio il mondo delle geisha.
Tornando a noi, quando uscì il film, per i motivi di cui sopra, non potei non vederlo. Una volta al cinema, nei titoli di testa, scoprii che era stato tratto da un libro.
Inutile dire che il giorno dopo mi fiondai in libreria a comprarlo.
E lo lessi d'un fiato.
Se il film era stato grandioso (per fotografia e colonna sonora, se non altro), il libro è davvero ben scritto. In parte biografico, scritto dopo varie interviste ad una ex-geisha di Kyoto ormai naturalizzata americana, in parte romanzato.
E' questa la prima cosa che mi ha dato fastidio.
Insomma, speravo che il libro mi aprisse uno spiraglio sul mondo segreto e misterioso delle geisha, queste "artiste" istruite e raffinate, per le quali ogni gesto doveva esprimere perfezione, ma non solo ogni gesto, ogni respiro, ogni più sottile capello, e invece sono rimasta un po' delusa.
Come ho detto, il libro è scritto bene, scorre veloce e la storia è dolce, a tratti avvincente, ma purtroppo è davvero troppo americanizzata. Magari è davvero andata così, a grandi linee, ma non posso fare a meno di pensare che se avesse scritto la storia vera, senza abbellimenti da scrittore, il libro stesso ne avrebbe giovato e la lettura sarebbe stata più bella e istruttiva.
Insomma, se io voglio leggere qualcosa che mi parli del Giappone, preferisco che vengano usate parole e metafore ed espressioni tipiche giapponesi. Non mi piace di certo che uno scrittore occidentale esprima gli stessi concetti adattandoli a lettori occidentali. Non c'è verità altrimenti. E al libro manca questo. Verità, freschezza, malinconia. Tutte qualità di cui invece la letteratura giapponese è piena.
Non starò qui a fare il paragone con gli autori nipponici, ma è lampante come il sole che questo libro non è stato scritto da uno di loro.
Forse avrebbe venduto di meno, ma sarebbe stato sicuramente più bello...
Però devo ammettere che, quando ho letto l'ultima parola, ho chiuso la copertina e mi sono sentita bene. E' raro che legga libri che finiscono con "e vissero tutti felici e contenti" e ogni tanto mi dimentico che anche un lieto fine può essere appagante. Diciamo che quando tutto si aggiusta, quando veniamo a sapere che Sayuri e il Presidente sono stati insieme tutta la vita (nonostante lui avesse comunque la moglie ufficiale), sentiamo che ogni cosa è come doveva essere e che le deviazioni che uno prende nella vita possono allontanarlo dalla meta ma non per sempre.
Un pensiero confortante, converrete con me.
I latini dicevano che in medio stat virtus, poi vai a capire se è vero, ma pare che perlopiù c'azzeccassero.
Quindi il mio consiglio è "leggetelo", perché non vi farà male, ma ricordate che i libri che vi fanno veramente bene sono altri.
Anarchic Rain
giovedì 5 marzo 2015
Una scrittrice che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce, parola di King
TITOLO: Abbiamo sempre vissuto nel castello
AUTORE: Shirley Jackson
EDIZIONE: Adelphi
PAGINE: 182
VERSIONE LETTA: cartacea e kindle
VALUTAZIONE IN DECIMI: 8 e mezzo
Quasi duecento pagine per questa storia gotica.
Quando si comincia a leggere, l'autrice sceglie volutamente parole misteriose e frasi ambigue per descrivere protagonisti e azioni e quindi ci ritroviamo, nostro malgrado, in mezzo alla storia quando ancora non ce lo aspettiamo.
Storia che, se posso esprimere il mio parere (e mi pare chiaro che posso), è deliziosa. Ma non proprio deliziosa, direi d-e-l-i-z-i-o-s-a.
Protagoniste sono due sorelle, Mary Katherine (Merricat) e Constance Blackwood, uniche sopravvissute, insieme allo zio Julian, alla tragedia che ha colpito tutta la loro famiglia: una sera, dopo una cena apparentemente normali, sono morti tutti.
Tutti tranne loro.
Un paesino piccolo, tutti si conoscono, è normale che le chiacchiere si gonfino a dismisura. Specie se la sorella minore, Constance, è stata accusata (e poi prosciolta) a proposito di quelle morti improvvise e inquietanti.
Questo libro mi è piaciuto molto, il linguaggio è molto semplice e le situazioni sono raccontate con schiettezza e senza fronzoli, forse perché è stata usata la prima persona. E' proprio Mary quella che racconta la loro storia e, nonostante la semplicità delle parole, il libro è un crescendo di "tensione" (non è proprio la parola esatta, forse è meglio dire emozione) fino al drammaticissimo finale.
Non mi sarei aspettata una fine diversa, mi sembra in assoluta coerenza con tutta la storia.
Una delle cose che mi è piaciuta di più è il rapporto delle due sorelle: a volte può sembrare un tantino morboso, ma l'affetto profondo che le unisce è innegabile, sia nei gesti quotidiani che nelle parole e negli sguardi che si rivolgono, che soprattutto nell'enorme segreto che condividono.
Loro due sono a conoscenza di quello che successe ai loro familiari, l'una perché ne è stata l'artefice, l'altra perché conosce troppo bene la sorella.
Lo zio Julian sta scrivendo la storia della famiglia, con particolare minuzia (e oserei dire, pignoleria) riguardo quell'ultimo fatidico giorno, come se ricostruire le loro ultime ore di vita potesse servire a qualcosa. Forse a dar loro pace per sempre.
Quindi il libro è un continuo riferirsi (in termini freddi, quasi giornalistici) a tutto ciò che i membri morti della famiglia hanno detto e fatto dalla mattina di quella che sarebbe stata la loro ultima giornata sulla terra.
In paese la gente si divide in quelli che prendono in giro le due sorelle apertamente, quelli che lo fanno di nascosto, quelli che le credono due assassine spietate, quelli che cercano di mantenere le apparenze andandole a trovare e che, allo stesso tempo, sono terrorizzati di mangiare qualsiasi cosa esca dalla loro cucina.
Devo ammettere che è stato abbastanza esilarante vedere le due ragazze (e lo zio Julian) mettere in imbarazzo ignare signore con il racconto di quello che successe quella sera fatale. Sembrano prendere in giro non solo loro, ma anche il fatto stesso. Come se non fosse importante.
La freddezza nei confronti della morte dei familiari è qualcosa che forse dovrebbe sconvolgere, più che divertire, ma penso che ci sia di mezzo un bel po' di humor inglese (anche se l'autrice è americana).
Purtroppo, ad un certo punto, si insinua un bug nel sistema perfetto che le ragazze hanno creato nella loro routine quotidiana: arriva il loro cugino Charles. Un essere abbastanza odioso.
Ora, quello che voglio dire è che fin dall'inizio noi lettori capiamo che qualcosa non quadra, che le due sorelle hanno qualcosa di strano, ma non possiamo fare a meno di provare una sorta di empatia per loro. E quando Charles fa il suo ingresso, tutto tronfio e ovviamente interessato, l'inevitabile è che iniziamo anche noi a fare il tifo per Constance e Merricat perché uccidano anche lui.
Il culmine del libro arriva al penultimo capitolo, con l'incendio di Blackwood farm, con le sue inevitabili conseguenze. Le due sorelle si salvano (e noi veniamo a sapere finalmente cosa realmente è successo la sera dell'omicidio) ma non lo zio Julian. Sconvolte, ormai sapendo di poter contare solo su loro stesse, le due ragazze decidono di barricarsi per sempre nel "castello", senza più parlare con anima via.
Questo è uno di quei libri che lasciano senza fiato pur non essendo un libro d'azione, anzi, tutto il contrario. Sono sospesi in un limbo, lievemente altalenanti, poi ad un certo punto è come se si fermassero (trattenessero il fiato) per poi tornare di nuovo a dondolare.
D-e-l-i-z-i-o-s-o.
Anarchic Rain
AUTORE: Shirley Jackson
EDIZIONE: Adelphi
PAGINE: 182
VERSIONE LETTA: cartacea e kindle
VALUTAZIONE IN DECIMI: 8 e mezzo
Quasi duecento pagine per questa storia gotica.
Quando si comincia a leggere, l'autrice sceglie volutamente parole misteriose e frasi ambigue per descrivere protagonisti e azioni e quindi ci ritroviamo, nostro malgrado, in mezzo alla storia quando ancora non ce lo aspettiamo.
Storia che, se posso esprimere il mio parere (e mi pare chiaro che posso), è deliziosa. Ma non proprio deliziosa, direi d-e-l-i-z-i-o-s-a.
Protagoniste sono due sorelle, Mary Katherine (Merricat) e Constance Blackwood, uniche sopravvissute, insieme allo zio Julian, alla tragedia che ha colpito tutta la loro famiglia: una sera, dopo una cena apparentemente normali, sono morti tutti.
Tutti tranne loro.
Un paesino piccolo, tutti si conoscono, è normale che le chiacchiere si gonfino a dismisura. Specie se la sorella minore, Constance, è stata accusata (e poi prosciolta) a proposito di quelle morti improvvise e inquietanti.
Questo libro mi è piaciuto molto, il linguaggio è molto semplice e le situazioni sono raccontate con schiettezza e senza fronzoli, forse perché è stata usata la prima persona. E' proprio Mary quella che racconta la loro storia e, nonostante la semplicità delle parole, il libro è un crescendo di "tensione" (non è proprio la parola esatta, forse è meglio dire emozione) fino al drammaticissimo finale.
Non mi sarei aspettata una fine diversa, mi sembra in assoluta coerenza con tutta la storia.
Una delle cose che mi è piaciuta di più è il rapporto delle due sorelle: a volte può sembrare un tantino morboso, ma l'affetto profondo che le unisce è innegabile, sia nei gesti quotidiani che nelle parole e negli sguardi che si rivolgono, che soprattutto nell'enorme segreto che condividono.
Loro due sono a conoscenza di quello che successe ai loro familiari, l'una perché ne è stata l'artefice, l'altra perché conosce troppo bene la sorella.
Lo zio Julian sta scrivendo la storia della famiglia, con particolare minuzia (e oserei dire, pignoleria) riguardo quell'ultimo fatidico giorno, come se ricostruire le loro ultime ore di vita potesse servire a qualcosa. Forse a dar loro pace per sempre.
Quindi il libro è un continuo riferirsi (in termini freddi, quasi giornalistici) a tutto ciò che i membri morti della famiglia hanno detto e fatto dalla mattina di quella che sarebbe stata la loro ultima giornata sulla terra.
In paese la gente si divide in quelli che prendono in giro le due sorelle apertamente, quelli che lo fanno di nascosto, quelli che le credono due assassine spietate, quelli che cercano di mantenere le apparenze andandole a trovare e che, allo stesso tempo, sono terrorizzati di mangiare qualsiasi cosa esca dalla loro cucina.
Devo ammettere che è stato abbastanza esilarante vedere le due ragazze (e lo zio Julian) mettere in imbarazzo ignare signore con il racconto di quello che successe quella sera fatale. Sembrano prendere in giro non solo loro, ma anche il fatto stesso. Come se non fosse importante.
La freddezza nei confronti della morte dei familiari è qualcosa che forse dovrebbe sconvolgere, più che divertire, ma penso che ci sia di mezzo un bel po' di humor inglese (anche se l'autrice è americana).
Purtroppo, ad un certo punto, si insinua un bug nel sistema perfetto che le ragazze hanno creato nella loro routine quotidiana: arriva il loro cugino Charles. Un essere abbastanza odioso.
Ora, quello che voglio dire è che fin dall'inizio noi lettori capiamo che qualcosa non quadra, che le due sorelle hanno qualcosa di strano, ma non possiamo fare a meno di provare una sorta di empatia per loro. E quando Charles fa il suo ingresso, tutto tronfio e ovviamente interessato, l'inevitabile è che iniziamo anche noi a fare il tifo per Constance e Merricat perché uccidano anche lui.
Il culmine del libro arriva al penultimo capitolo, con l'incendio di Blackwood farm, con le sue inevitabili conseguenze. Le due sorelle si salvano (e noi veniamo a sapere finalmente cosa realmente è successo la sera dell'omicidio) ma non lo zio Julian. Sconvolte, ormai sapendo di poter contare solo su loro stesse, le due ragazze decidono di barricarsi per sempre nel "castello", senza più parlare con anima via.
Questo è uno di quei libri che lasciano senza fiato pur non essendo un libro d'azione, anzi, tutto il contrario. Sono sospesi in un limbo, lievemente altalenanti, poi ad un certo punto è come se si fermassero (trattenessero il fiato) per poi tornare di nuovo a dondolare.
D-e-l-i-z-i-o-s-o.
Anarchic Rain
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