Ebbene sì, alla veneranda (ma no...) età di trentatré anni (ho detto trentatré?? Naaaaa...), ho letto il romanzo fantasy per eccellenza, quello da cui tutti i romanzi successivi hanno attinto, volenti o nolenti. D'altra parte questo libro è talmente vasto, pieno zeppo di personaggi, luoghi e immaginario, che per forza di cose ci si riferisce prima o poi.
Ho sempre detto (e continuo a sostenerlo) che a me il fantasy non ha mai attirato molto. Ammetto che ci sono libri del genere scritti molto bene, anche piacevoli da leggere (la saga di Harry Potter, per fare un esempio, l'ho letta in un mese o giù di lì ed è stata una lettura divertente), ma non è quello che cerco di solito in un libro.
Come già successo per la Torre Nera di King, devo ricredermi anche su questo imponente tomo (anche questo lo considero un libro unico, come era nelle intenzioni di Tolkien quando lo scrisse).
Se mi chiedessero di descriverlo con un unico aggettivo (seppure un po' riduttivo) non avrei dubbi: poetico.
Il trucco più sconcertante, proprio perché invisibile, è il cambiamento di registro quando si passa da un popolo all'altro, da un'ambientazione all'altra, da un personaggio all'altro.
Hobbit, elfi, nani, uomini, orchi, maghi. Ognuno con le sue tradizioni, i suoi modi di dire, la sua lingua, i suoi scherzi. E tutti sono ben caratterizzati, sembra quasi che stiano per bussare alla tua porta. Escono letteralmente dalla pagina. All'inizio (e alla fine) ti sembra di star lì, a passeggio nella Contea, e di incontrare tutti i suoi abitanti, di bere birra con loro, di divertirti con loro per le piccole cose. Magnifiche sono le descrizioni di Gran Burrone e degli Elfi in generale, dei boschi di Lothlorien e di Dama Galadriel. I racconti di Gimli su Moria, l'incontro degli hobbit con Tom Bombadil, un personaggio un po' fumoso, ma interessantissimo (che ritroviamo anche alla fine, nominato da Gandalf). E che dire degli Ent, i custodi degli alberi, che non parlano mai se una cosa non è degna di un lungo e complesso discorso.
Anche i personaggi negativi sono trattati piuttosto a fondo: Orchi, Troll, Uomini diventati ormai schiavi di Sauron. E le stupende descrizioni della terra di Mordor, spaventose ma necessarie. Sembra davvero di essere lì e di respirare l'aria corrotta di Minas Morgul, di bere l'acqua contaminata che sgorga dentro Mordor, di sentire il freddo vento mefitico sul viso. E' un'immersione a tutto tondo, che coinvolge tutti e cinque i sensi.
Ma le descrizioni (davvero numerose) non sono mai noiose, il tutto è bilanciato direi alla perfezione, per non permettere al lettore non solo di non perdere la concentrazione, ma anche di non staccare un momento gli occhi dalla pagina. E' un continuo voler andare avanti, seguendo ora Frodo e Sam (quest'ultimo uno dei miei preferiti) ora Aragorn (il mio preferito, scontatissimo, lo so), o Gandalf o Gimli (meraviglioso personaggio, lo preferisco di gran lunga a Legolas).
Il Signore degli Anelli è una bellezza continua, una scoperta inesauribile, una miniera di sottostorie.
Se non vi piacciono i libri molto dettagliati, lasciate perdere, vi infilereste in un pantano atroce.
Tentate, magari, può anche darsi che vi catturi vostro malgrado.
Se invece amate essere trascinati nella storia, completamente, se quando leggete cercate anche il dettaglio più insignificante, allora lasciatevi trascinare da questa marea. E' un'esperienza totalizzante.
Postilla per quanto riguarda i film: a me non sono piaciuti molto. Comprendo l'immane lavoro che doveva per forza esser fatto, i tagli (ovviamente) e anche molte esigenze di produzione, ma non ne condivido nemmeno la metà. Gli attori mi sono piaciuti a tratti, non sempre la scelta è stata felice, ma per alcuni direi che invece è stata geniale: Merry e Pipino per esempio, perfetti entrambi. Così anche Gimli, Aragorn, Gandalf e Sam. Galadriel e Arwen ni. Legolas proprio no e nemmeno Frodo mi ha soddisfatto troppo. Comunque rimangono (tutti e tre) un grande esempio di cinema per tutto il resto: scenografie, costumi, fotografia e molto altro che magari nemmeno capisco in pieno.
Ma il libro andrebbe letto. E' troppo bello per lasciarlo da parte (come ho fatto anch'io per anni).
Anarchic Rain
sabato 30 gennaio 2016
lunedì 25 gennaio 2016
Cecità di Josè Saramago
Depressi cronici, state alla larga da questo romanzo.
Gente debole di stomaco, rifuggitelo.
Ho concluso il 2015 con questo romanzo, il mio primo di Saramago, e vi giuro che a saperlo non l'avrei letto per ultimo.
Non fraintendetemi, il romanzo è stupendo, ho scoperto grazie a lui che adoro lo stile "stream of consciousness" e che Saramago potrebbe diventare uno dei miei scrittori preferiti. Ma leggerlo in chiusura d'anno, come ultimo libro, non lo so, non mi è piaciuto. Rispetto allo scorso anno, il cui ultimo libro è stato La torre nera di King, mi è sembrata un'amara conclusione.
Cosa succederebbe agli uomini se diventassero d'improvviso ciechi senza un motivo? Se la cecità fosse un virus ad alta contagiosità e diffondesse velocemente e senza risparmiare nessuno?
Saramago ci descrive in un romanzo ad altissima tensione il Caos che ne deriva, mantenendo un'unica luce: una sola donna sembra essere rimasta immune all'improvviso biancore che ha offuscato gli occhi di tutti. Ed è attraverso i suoi occhi che noi riusciamo a guardare le vite dei ciechi intorno a lei, la loro disperazione e la loro degradazione.
Che cosa significa la cecità dell'uomo? Cosa succede quando è privato di uno solo dei sensi? E' la sua vera personalità quella che viene fuori o ne è solo una distorta fotocopia? Perché sembra che la degradazione vinca sul buonsenso e sulla civiltà? Non so rispondere a questa domanda e probabilmente nemmeno Saramago può. Ma il suo ritratto è stato talmente vivo e logico (in un certo senso) che stento a immaginare una realtà diversa in quelle condizioni. Lui ci guida nella scoperta di quel mondo nuovo e noi siamo costretti ad ammettere che probabilmente sarebbe davvero così, che l'uomo scenderebbe la china del suo peccato molto più profondamente di quanto già non faccia.
E non esiste un motivo. Questa è la vera follia, il vero orrore.
La totale mancanza di segni di dialogo, la quasi totale assenza di punteggiatura potrebbero rendere questo romanzo un po' ostico, all'inizio, perlomeno a chi non è abituato al genere. Ma io l'ho trovato molto scorrevole. Ho avuto più difficoltà a leggere alcuni passi per il tema trattato più che per l'assenza di punti o virgole. In alcuni passaggi mi sono quasi sentita fisicamente male, per la crudezza e il forte realismo di ogni parola.
Ultimamente mi capita di leggere libri "forti", sia per tema che per linguaggio, ma non mi hanno fatto l'impressione che temevo. Insomma, sono sempre cresciuta a pane e Piccole donne, non sapevo ancora di poter sopportare gente del calibro di McCarthy, Saramago e (a volte) McEwan. Invece ho scoperto che mi piacciono, mi appassionano e anche se non li consiglierei di certo come lettura di svago, devo assolutamente consigliarli a chi vuole provare emozioni forti, contrastanti e a volte anche un po' disgustose/disgustate.
Ripeto: questo libro non è adatto ai deboli di stomaco e agli impressionabili, ma per tutti gli altri: fatevi sotto.
Anarchic Rain
Gente debole di stomaco, rifuggitelo.
Ho concluso il 2015 con questo romanzo, il mio primo di Saramago, e vi giuro che a saperlo non l'avrei letto per ultimo.
Non fraintendetemi, il romanzo è stupendo, ho scoperto grazie a lui che adoro lo stile "stream of consciousness" e che Saramago potrebbe diventare uno dei miei scrittori preferiti. Ma leggerlo in chiusura d'anno, come ultimo libro, non lo so, non mi è piaciuto. Rispetto allo scorso anno, il cui ultimo libro è stato La torre nera di King, mi è sembrata un'amara conclusione.
Cosa succederebbe agli uomini se diventassero d'improvviso ciechi senza un motivo? Se la cecità fosse un virus ad alta contagiosità e diffondesse velocemente e senza risparmiare nessuno?
Saramago ci descrive in un romanzo ad altissima tensione il Caos che ne deriva, mantenendo un'unica luce: una sola donna sembra essere rimasta immune all'improvviso biancore che ha offuscato gli occhi di tutti. Ed è attraverso i suoi occhi che noi riusciamo a guardare le vite dei ciechi intorno a lei, la loro disperazione e la loro degradazione.
Che cosa significa la cecità dell'uomo? Cosa succede quando è privato di uno solo dei sensi? E' la sua vera personalità quella che viene fuori o ne è solo una distorta fotocopia? Perché sembra che la degradazione vinca sul buonsenso e sulla civiltà? Non so rispondere a questa domanda e probabilmente nemmeno Saramago può. Ma il suo ritratto è stato talmente vivo e logico (in un certo senso) che stento a immaginare una realtà diversa in quelle condizioni. Lui ci guida nella scoperta di quel mondo nuovo e noi siamo costretti ad ammettere che probabilmente sarebbe davvero così, che l'uomo scenderebbe la china del suo peccato molto più profondamente di quanto già non faccia.
E non esiste un motivo. Questa è la vera follia, il vero orrore.
La totale mancanza di segni di dialogo, la quasi totale assenza di punteggiatura potrebbero rendere questo romanzo un po' ostico, all'inizio, perlomeno a chi non è abituato al genere. Ma io l'ho trovato molto scorrevole. Ho avuto più difficoltà a leggere alcuni passi per il tema trattato più che per l'assenza di punti o virgole. In alcuni passaggi mi sono quasi sentita fisicamente male, per la crudezza e il forte realismo di ogni parola.
Ultimamente mi capita di leggere libri "forti", sia per tema che per linguaggio, ma non mi hanno fatto l'impressione che temevo. Insomma, sono sempre cresciuta a pane e Piccole donne, non sapevo ancora di poter sopportare gente del calibro di McCarthy, Saramago e (a volte) McEwan. Invece ho scoperto che mi piacciono, mi appassionano e anche se non li consiglierei di certo come lettura di svago, devo assolutamente consigliarli a chi vuole provare emozioni forti, contrastanti e a volte anche un po' disgustose/disgustate.
Ripeto: questo libro non è adatto ai deboli di stomaco e agli impressionabili, ma per tutti gli altri: fatevi sotto.
Anarchic Rain
sabato 2 gennaio 2016
Battle Royale di Koushun Takami
Duuuuuuunque. Forse è meglio premettere che non mi piacciono i romanzi come Hunger Games. Ovvero, li trovo adatti ai ragazzini e nient'altro. Ma non bisogna dimenticare che tutti i vari hunger games derivano da 1984. Che è uno dei miei libri preferiti. Ma 1984 è un libro da adulti.
Sul retro della copertina di questo romanzo giapponese dei primi anni '90 (ci tengo a sottolinearlo), c'è scritto che il romanzo è un incrocio tra 1984 e Il signore delle mosche (altro libro che ha segnato la mia vita, per così dire). Non cedo mai a questa sorta di ricatto morale, non mi faccio abbindolare dalle facili similitudini, magari studiate a tavolino dalla casa editrice, ma qui non solo c'erano in gioco due capolavori della letteratura mondiale, c'era anche il fatto che lo scrittore in questione fosse giapponese. Sarò fissata io, ma gli scrittori nipponici hanno una qualità rara (anzi, quasi unica) che li rende ai miei occhi perlomeno speciali. Ossia, riescono a descrivere ogni tipo di situazione senza scadere nel patetico e nel ridicolo.
Non conosco moltissimi autori, diciamo i più famosi (Murakami, Mishima, Kawabata, Katayama sopra tutti), ma non ho mai storto il naso per il troppo miele o il troppo pathos.
Insomma, l'ho comprato.
Anni fa.
E l'ho letto.
Qualche settimana fa.
Folgorazione.
La storia è al limite del risicato: in un mondo distopico, ogni anno una classe di terza media (in Giappone è una classe di quindicenni) viene sorteggiata e spedita su un'isola, da cui ne esce un solo studente: vivo e vincitore. Gli altri che hanno perso sono morti. Uccisi tra loro. Così il governo si diverte e il popolo si ca*a sotto di paura.
La cosa interessante (e terrificante di questo romanzo) è la velocissima discesa dei ragazzi allo stato di "animali": chi preda e chi predatore. All'inizio la distinzione è netta e infatti i primi "deboli" muoiono subito. Ma poi si ritrovano a combattere i più intelligenti, i più astuti, i più cattivi. Oppure quelli che hanno il cuore. I protagonisti sono due ragazzi e una ragazza che sembrano diversi dagli altri, non solo perchè si muovono in gruppo, ma perchè non attaccano mai per primi e cercano di non uccidere nessuno (nonostante a volte siano obbligati, si tratta di un gioco in cui a un certo punto o uccidi o sei ucciso).
E' tremendo veder affiorare gli istinti più bassi di ognuno, è tremendo pensare che sono soltanto dei quindicenni e che sono sottoposti a un "gioco" crudele e insensato.
Secondo me l'autore è stato bravissimo a descrivere i cambiamenti di animo di ognuno dei ragazzi, a farci affezionare ad alcuni e a odiare altri.
Inoltre non è facile mantenere alta la tensione per poco meno di settecento pagine. Ma lui ci riesce. Davvero, ti ritrovi a trattenere il fiato per pagine e pagine e quando pensi che sei giunto alla conclusione, non è così! E ricominci a trattenere il respiro.
Bello, bello bello. Crudele, ma bello.
L'unico difetto (a volerlo chiamare così) sono i nomi dei personaggi: se non siete abituati a manga e affini, vi troverete un po' in difficoltà a ricordarveli (sono 40 studenti e ricordare quaranta nomi e cognomi in una lingua orientale non è facile se non si è allenati), ma cercate di passarci sopra, non ve ne pentirete.
Ci sono scene forti, sia a livello splatter, sia a livello emotivo, perciò astenersi deboli di cuore e/o stomaco, inoltre non lo consiglierei a un tredicenne.
Per il resto, leggetelo. Rimarrete impigliati in una storia davvero ben scritta e coinvolgente e alla fine vi sentirete un po' sporchi, un po' appiccicosi, ma sarete di certo più ricchi.
Anarchic Rain
Sul retro della copertina di questo romanzo giapponese dei primi anni '90 (ci tengo a sottolinearlo), c'è scritto che il romanzo è un incrocio tra 1984 e Il signore delle mosche (altro libro che ha segnato la mia vita, per così dire). Non cedo mai a questa sorta di ricatto morale, non mi faccio abbindolare dalle facili similitudini, magari studiate a tavolino dalla casa editrice, ma qui non solo c'erano in gioco due capolavori della letteratura mondiale, c'era anche il fatto che lo scrittore in questione fosse giapponese. Sarò fissata io, ma gli scrittori nipponici hanno una qualità rara (anzi, quasi unica) che li rende ai miei occhi perlomeno speciali. Ossia, riescono a descrivere ogni tipo di situazione senza scadere nel patetico e nel ridicolo.
Non conosco moltissimi autori, diciamo i più famosi (Murakami, Mishima, Kawabata, Katayama sopra tutti), ma non ho mai storto il naso per il troppo miele o il troppo pathos.
Insomma, l'ho comprato.
Anni fa.
E l'ho letto.
Qualche settimana fa.
Folgorazione.
La storia è al limite del risicato: in un mondo distopico, ogni anno una classe di terza media (in Giappone è una classe di quindicenni) viene sorteggiata e spedita su un'isola, da cui ne esce un solo studente: vivo e vincitore. Gli altri che hanno perso sono morti. Uccisi tra loro. Così il governo si diverte e il popolo si ca*a sotto di paura.
La cosa interessante (e terrificante di questo romanzo) è la velocissima discesa dei ragazzi allo stato di "animali": chi preda e chi predatore. All'inizio la distinzione è netta e infatti i primi "deboli" muoiono subito. Ma poi si ritrovano a combattere i più intelligenti, i più astuti, i più cattivi. Oppure quelli che hanno il cuore. I protagonisti sono due ragazzi e una ragazza che sembrano diversi dagli altri, non solo perchè si muovono in gruppo, ma perchè non attaccano mai per primi e cercano di non uccidere nessuno (nonostante a volte siano obbligati, si tratta di un gioco in cui a un certo punto o uccidi o sei ucciso).
E' tremendo veder affiorare gli istinti più bassi di ognuno, è tremendo pensare che sono soltanto dei quindicenni e che sono sottoposti a un "gioco" crudele e insensato.
Secondo me l'autore è stato bravissimo a descrivere i cambiamenti di animo di ognuno dei ragazzi, a farci affezionare ad alcuni e a odiare altri.
Inoltre non è facile mantenere alta la tensione per poco meno di settecento pagine. Ma lui ci riesce. Davvero, ti ritrovi a trattenere il fiato per pagine e pagine e quando pensi che sei giunto alla conclusione, non è così! E ricominci a trattenere il respiro.
Bello, bello bello. Crudele, ma bello.
L'unico difetto (a volerlo chiamare così) sono i nomi dei personaggi: se non siete abituati a manga e affini, vi troverete un po' in difficoltà a ricordarveli (sono 40 studenti e ricordare quaranta nomi e cognomi in una lingua orientale non è facile se non si è allenati), ma cercate di passarci sopra, non ve ne pentirete.
Ci sono scene forti, sia a livello splatter, sia a livello emotivo, perciò astenersi deboli di cuore e/o stomaco, inoltre non lo consiglierei a un tredicenne.
Per il resto, leggetelo. Rimarrete impigliati in una storia davvero ben scritta e coinvolgente e alla fine vi sentirete un po' sporchi, un po' appiccicosi, ma sarete di certo più ricchi.
Anarchic Rain
Cani neri di Ian McEwan
L'ho già detto e ripetuto che secondo me Ian McEwan è un genio, e mentre spunto libri dalla sua bibliografia man mano che leggo me ne convinco sempre più.
Quest'ultimo è un libro che parte apparentemente dal "nulla" ma riflette su "tutto". Politica, religione, rapporti genitore-figlio e genitore-genitore. Il nulla solo apparente da cui parte è il protagonista, prima ragazzo venuto da una famiglia disastrata che vuole solo riscattare la sua provenienza, poi uomo con una propria famiglia (felice) che scrive un memoriale sui suoceri. In realtà è quasi tutto un succedersi di pensieri più che fatti, cosa evidente visti i frequenti salti temporali lungo tutto il racconto.
McEwan mi dà sempre l'idea di un archeologo, uno che sta lì paziente, a riportare alla luce, ossicino dopo ossicino, gli scheletri della nostra anima. I suoi personaggi sono credibili perchè sono crudi, vivi e fin troppo possibili. Siamo noi, basta guardarci intorno (dentro). Le follie, le astrazioni, le gioie, gli amori, i dolori. Tutto. Non appartengono solo a coloro che descrive, ma è rubato a noi.
I fatti del libro sono: l'uomo che fu bambino introverso trova moglie e costruisce una famiglia; la sua ossessione per i genitori (che non ha praticamente conosciuto, essendo morti quando lui era piccolo) lo porta ad affezionarsi oltremisura ai suoceri, persone piacevolissime e diverse (o no?); cercando di riconciliare due vite da troppo tempo distanti si accinge a scrivere il memoriale di una di queste. Ci riuscirà mai? Non importa, in fondo. Il bello della vita è più nel tentativo. Quello che ci dà il senso di tutto non è (sempre) la meta, ma il cammino.
Non lo dicono tutti, in fondo?
Anarchic Rain
Quest'ultimo è un libro che parte apparentemente dal "nulla" ma riflette su "tutto". Politica, religione, rapporti genitore-figlio e genitore-genitore. Il nulla solo apparente da cui parte è il protagonista, prima ragazzo venuto da una famiglia disastrata che vuole solo riscattare la sua provenienza, poi uomo con una propria famiglia (felice) che scrive un memoriale sui suoceri. In realtà è quasi tutto un succedersi di pensieri più che fatti, cosa evidente visti i frequenti salti temporali lungo tutto il racconto.
McEwan mi dà sempre l'idea di un archeologo, uno che sta lì paziente, a riportare alla luce, ossicino dopo ossicino, gli scheletri della nostra anima. I suoi personaggi sono credibili perchè sono crudi, vivi e fin troppo possibili. Siamo noi, basta guardarci intorno (dentro). Le follie, le astrazioni, le gioie, gli amori, i dolori. Tutto. Non appartengono solo a coloro che descrive, ma è rubato a noi.
I fatti del libro sono: l'uomo che fu bambino introverso trova moglie e costruisce una famiglia; la sua ossessione per i genitori (che non ha praticamente conosciuto, essendo morti quando lui era piccolo) lo porta ad affezionarsi oltremisura ai suoceri, persone piacevolissime e diverse (o no?); cercando di riconciliare due vite da troppo tempo distanti si accinge a scrivere il memoriale di una di queste. Ci riuscirà mai? Non importa, in fondo. Il bello della vita è più nel tentativo. Quello che ci dà il senso di tutto non è (sempre) la meta, ma il cammino.
Non lo dicono tutti, in fondo?
Anarchic Rain
Elementi di stile nella scrittura di William Strunk jr
Una che si definisce kinghiana DOP non poteva di certo non leggere questo libricino di appena 94 pagine. Se il Re afferma senza ombra di dubbio che questo è l'unico libro sul mestiere di scrivere che è degno di essere letto, allora io ci credo.
Quindi l'ho letto. Ci si mette poco, sono pochissime pagine, piene di esempi, di consigli.
La cosa fondamentale è che mi sono divertita a leggerlo e finalmente ho capito perché a King piace tanto: perché lui scrive per divertirsi (e divertire) e un libro che spiega in modo divertente come scrivere non poteva certo passare inosservato.
Mi sono divertita perché è un manuale chiaro, semplice e senza sbavature. Non ti promette che diventerai un grande scrittore. Ti dice solo quali sono gli strumenti che dovresti avere per provarci.
E' adorabile, sul serio.
Oltre a essere divertente, questo libro, per quanto piccolo, è utilissimo. Io penso che se uno, dotato del minimo sindacale di talento, lo imparasse a memoria e lo applicasse ogni volta che tenta di scrivere qualcosa, diventerebbe un grande scrittore. Acclamato. Esultante, direi.
Nel libro sono espressi concetti chiari in forma semplice. Non fare questo, fai questo. Tutti sono in grado di capirli. Ma non basta leggere un libro per assimilarlo, per essere certi di applicarlo con criterio. E' questo che intendeva King quando diceva nel suo On writing che non bisogna solo leggere molto o scrivere molto. bisogna fare entrambe le cose.
L'edizione che ho io di questo libretto è del 2008 e i riferimenti a King (che a sua volta si riferisce a questo) sono innumerevoli. Se tutti ascoltassero i consigli congiunti di questi due scritti mi sa che avremmo un sacco di scrittori competitivi.
Come dice King, con parole più esplicite rispetto a Struk, "bisogna uccidere i propri bambini (i romanzi, cioè): durante la riscrittura di un libro (o racconto) bisogna cancellare (uccidere) tutte le parole inutili.
Non voglio (e non potrei nemmeno volendo) aggiungere nulla a quello che sta scritto magnificamente in queste 100 e meno pagine. Leggetelo, voi che aspirate alla gloria di Calliope, forse imparerete qualcosa.
Anarchic Rain
Quindi l'ho letto. Ci si mette poco, sono pochissime pagine, piene di esempi, di consigli.
La cosa fondamentale è che mi sono divertita a leggerlo e finalmente ho capito perché a King piace tanto: perché lui scrive per divertirsi (e divertire) e un libro che spiega in modo divertente come scrivere non poteva certo passare inosservato.
Mi sono divertita perché è un manuale chiaro, semplice e senza sbavature. Non ti promette che diventerai un grande scrittore. Ti dice solo quali sono gli strumenti che dovresti avere per provarci.
E' adorabile, sul serio.
Oltre a essere divertente, questo libro, per quanto piccolo, è utilissimo. Io penso che se uno, dotato del minimo sindacale di talento, lo imparasse a memoria e lo applicasse ogni volta che tenta di scrivere qualcosa, diventerebbe un grande scrittore. Acclamato. Esultante, direi.
Nel libro sono espressi concetti chiari in forma semplice. Non fare questo, fai questo. Tutti sono in grado di capirli. Ma non basta leggere un libro per assimilarlo, per essere certi di applicarlo con criterio. E' questo che intendeva King quando diceva nel suo On writing che non bisogna solo leggere molto o scrivere molto. bisogna fare entrambe le cose.
L'edizione che ho io di questo libretto è del 2008 e i riferimenti a King (che a sua volta si riferisce a questo) sono innumerevoli. Se tutti ascoltassero i consigli congiunti di questi due scritti mi sa che avremmo un sacco di scrittori competitivi.
Come dice King, con parole più esplicite rispetto a Struk, "bisogna uccidere i propri bambini (i romanzi, cioè): durante la riscrittura di un libro (o racconto) bisogna cancellare (uccidere) tutte le parole inutili.
Non voglio (e non potrei nemmeno volendo) aggiungere nulla a quello che sta scritto magnificamente in queste 100 e meno pagine. Leggetelo, voi che aspirate alla gloria di Calliope, forse imparerete qualcosa.
Anarchic Rain
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