sabato 30 giugno 2018

Il mio primo King, il libro che in qualche modo mi ha messo sulla mia strada

TITOLO: The Dark Half
AUTORE: Stephen King
EDIZIONE: Viking
PAGINE: 431
VERSIONE LETTA: cartacea e kindle 
VALUTAZIONE IN DECIMI: 9-

You think I'm a monster, and maybe you're right. But real monsters are never without feelings. I think in the end it's that, and not how they look, that makes them so scary.




Il mio primo King.
Era il millenovecentonovantaquattro. Avevo dodici anni. Gesù, non li avrò mai più. Ma avrò ancora questo libro e la meraviglia che mi ha lasciato dentro.
Diciamoci la verità: non è il libro più bello di King. Nemmeno lontanamente. Per me è in top ten, perché, in quanto primo, è stato quello che mi ha avvicinata allo zio e quindi mi ha permesso di entrare in quel mondo stupendo. Ma è solo una questione di nostalgia e affetto.

A dispetto di tutto questo, è comunque un bel libro, superiore alla media.
La storia è quella di Thad, uno scrittore che aveva uno pseudonimo e che quando ha deciso di disfarsene ha dovuto fare i conti con la sua personificazione (malvagia, ovviamente).
Il perfetto quadretto americano sconvolto da una presenza crudele e immonda, che non avrebbe mai dovuto esistere e che invece è stata creata proprio dal più insospettabile di tutti.

Thad è un uomo buono, un pasticcione, se vogliamo, con una moglie che lo ama e due gemelli (maschio e femmina) che sono la massima espressione della cuteness. Però Thad non è solo quello, seppure nemmeno lui lo sospetta. Dentro di sé ha una zona d'ombra, tenebre così fitte che nemmeno lui riesce ad accettarle e deve creare per forza un'altra parte di sé che lo aiuti a sopportare questo peso oscuro. George Stark, questo è il suo nome. George prende su di sé la responsabilità del lato "crudele" di Thad e quando Thad stesso cerca di rinnegarlo, seppellendolo, lui prende vita e va a cercarlo per trovare una sua dignità di "essere umano".
Stark è una persona malvagia, che non esita a uccidere per vendetta e per arrivare al suo obiettivo, senza lasciare impuniti coloro che gli hanno fatto torto (a detta sua, ovviamente).
Non esita a puntare la pistola contro William, uno dei gemelli di Thad, solo per ottenere quello che vuole. Not a good man at all, come dice la finta pietra tombale fatta fare da Thad.
Eppure ciò che vuole è soltanto esistere. E scrivere ovviamente. E' così sbagliato? Sì, certo.

Penso che questo romanzo sia un omaggio dello zio al suo stesso pseudonimo, Richard Bachman, che gli ha dato la possibilità di sviluppare idee e storie che come "Stephen King" ormai non avrebbe più potuto esplorare.
Una lunga lettera, in parte d'amore, al personaggio fittizio che gli ha permesso di esprimersi in modo diverso ma comunque efficace.
Ma ovviamente, essendo un libro del Re, non poteva andare tutto liscio: quindi Stark è uno psicopatico che va fermato ad ogni costo e con l'impiego di qualunque mezzo.
E quale mezzo migliore degli psicopompi? Tramiti tra il mondo dei vivi e quello dei morti, semplici passeri per gli altri, ma guardiani del "ciò che è e ciò che non potrà mai essere".

Insieme a Thad, dalla parte dei "buoni", conosciamo lo sceriffo di Castle Rock, Alan Pangborn, una persona equilibrata e intelligente, che in questa storia ha un ruolo poco meno che marginale, purtroppo. A me piace tantissimo Alan, è uno dei personaggi dello zio che ricordo sempre con piacere, e una riflessione letta su un social proprio ieri mi ha spiegato il perché: Alan non è semplicemente uno dei buoni, ma potrebbe essere un emissario del Bianco (chi conosce l'universo di King sa a cosa mi riferisco, per tutti gli altri, leggetevi la Torre Nera, se volete) e un Pistolero per diritto di nascita. Il commento si riferiva al fatto che Alan potrebbe tranquillamente far parte del ka-tet di Roland, su un altro livello della Torre e quando l'ho letto ho realizzato che è esattamente così.
E' un personaggio di un'integrità senza macchia, pur essendo profondamente umano. Sì, mi piacerebbe vedere lui e Roland camminare insieme nel Medio-Mondo e diventare ka-tet.

Ok, sto divagando.

Chi dovrebbe leggere questo libro? Di pancia, risponderei "tutti", come al solito. Ma riflettendoci, direi che restringerei il campo ai lettori di King (è una sua pietra miliare, non vorrete mica perdervelo?!) e agli appassionati di doppia personalità o romanzo psicologico in generale. Perché se anche qui sembra che siamo di fronte un horror, in realtà non è così: lo zio scava nel profondo dell'animo umano e ciò che ci mette davanti non è una semplice "incarnazione" del male, è la "proiezione" esterna di quel male che c'è dentro ognuno di noi. Thad è una persona buona...ma solo perché ha creato Stark che si prende tutto lo "schifo" della sua anima.
In ognuno di noi c'è bianco e c'è nero e bisogna stare attenti a bilanciarli bene, altrimenti potrebbe succedere un disastro.

Anarchic Rain

sabato 16 giugno 2018

Tutte le strade conducono all'odio

TITOLO: Al dio degli inglesi non credere mai - Storia del genocidio degli Indiani d'America 1492-1972
AUTORE: Gianfranco Peroncini, Marcella Colombo
EDIZIONE: OAKS editrice
PAGINE: 429
VERSIONE LETTA: cartacea
VALUTAZIONE IN DECIMI: 8 e mezzo

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura,
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura...


De André cantava questa canzone nel 1981 e quando la ascoltai per la prima volta, molti anni dopo, non potei fare a meno di pensare agli Indiani d'America, i Pellerossa di tutti i film western che passavano in tv e, ovviamente, a Balla coi Lupi.

Ora che sono un po' più cresciuta, ascolto sempre De André, ma la mia curiosità è stimolata in maniera forse più critica e per questo ho deciso di informarmi sulle vicende di questo "leggendario" popolo.
Ci sono parecchi libri sull'argomento, non sapevo proprio da quale iniziare, sapevo solo che ne cercavo uno di ampio respiro, che mi desse la possibilità di una visione "ampia" della Storia. Ho quindi evitato (per ora) le monografie più famose dei capi tribù e, onestamente, d'istinto ho evitato qualsiasi "storia" scritta dagli americani per evitare più "bias" possibili.
Girando in libreria ho trovato questo libro abbastanza consistente (poco più di quattrocento pagine), scritto a quattro mani da due italiani. Ottimo.




Nonostante le imprecisioni storiche della canzone di Faber, il testo e la musica che lo accompagna fanno il loro dovere: ti proiettano in un pezzo di Storia che oltre a essere profondamente ingiusto è anche indiscutibilmente disgustoso.

Non è una novità che a me gli americani non stanno simpatici affatto, li trovo perlopiù arroganti e stupidi (nonostante siano una potenza, ma questo la dice lunga sul resto del mondo più che su di loro...), ma dopo aver letto questo libro non solo ho consolidato la mia opinione, l'ho anche peggiorata e circostanziata. 

Non fraintendete le mie parole, ma si parla tanto di Hitler e dei gulag russi e di altre simili amenità, quando si vuole fare un esempio di distruzione di popoli o civiltà, senza rendersi conto o ricordarsi che questi sono (stati) solo dei tentativi. Gli unici (che io sappia) che sono riusciti a spazzare via sistematicamente e impunemente un popolo dalla faccia della terra sono stati proprio gli americani. E il popolo è quello dell'Uomo Rosso. Mi sorgono molti dubbi e domande su alcuni recenti fatti di storia contemporanea, ma me li terrò per me perché non sono abbastanza istruita sull'argomento e perché non è questa la sede per parlare di certe cose.

Mi limiterò a raccontarvi il libro.

La storia è molto semplice: c'era una volta un popolo che viveva libero e in armonia con la Natura (il Grande Spirito) che ad un tratto si vide invaso da gente con abitudini completamente diverse dalle proprie che pretendeva di avere la verità in tasca e aveva deciso di essere migliore di lui (dovrebbe suonarvi un campanello, a questo punto). Per mera sete di guadagno (terra, oro, potere) questa gente venuta dall'Est decise di sterminare consapevolmente il popolo dell'Uomo Rosso. Iniziò con l'uccidere i bisonti, grandissima e indispensabile fonte di sostentamento per l'Uomo Rosso, per proseguire con la stipulazione di patti incredibilmente sleali (e nemmeno mai rispettati) con i capi tribù e finire con l'eliminazione del popolo stesso mediante pretesti di bassa lega, stragi efferate immotivate (in cui i principali a rimetterci furono donne, vecchi e bambini) e l'isolamento in lager all'aperto (le cosiddette riserve...) dei superstiti. Per finire con l'indotta dipendenza da alcol.

Ci sono posti e battaglie che non abbiamo mai sentito nominare durante le lezioni di storia a scuola, un po' perché "non è successo vicino a noi", un po' perché il Paese più potente del mondo non si lascia certo trattare a pesci in faccia dai libri. Che sono comunque sempre scritti dai vincitori. Sand Creek, Black Hills, Little Bighorn, Wounded Knee sono nomi che al 90% della popolazione oggi dicono poco o niente.

La rabbia e la tristezza che ho provato leggendo questo libro non posso paragonarli a nient'altro abbia mai letto o vissuto. Si può infiocchettarla come si vuole, ma la nuda verità è che un popolo pacifico e innocente si è visto spazzato via a causa della sete di potere di un altro. Forse è così che va il mondo, ma la domanda "in che mondo viviamo, allora?" mi gira e rigira nella testa da un bel po'.

Due parole sull'edizione del libro: all'apparenza molto curato, purtroppo ci sono tantissimi refusi, ogni tanto cambia il font di scrittura e ci sono periodi lunghi un po' difficili da seguire. Non sono cose gravissime, ma interrompono la continuità della lettura e onestamente mi hanno dato un po' fastidio. Anche perché non è che il libro te lo regalano...
Un'altra cosa è che l'ho trovato eccessivamente di parte. Intendiamoci, sono d'accordo con l'idea generale che gli americani (e gli inglesi, spagnoli, italiani, tedeschi...) si siano comportati da schifo per quel che riguarda la "questione pellerossa", ma iniziare ogni capitolo con "gli americani l'hanno raccontata in modo diverso, ma ovviamente hanno torto marcio" non dà esattamente la misura dell'equità degli storiografi.

A parte questo, lo consiglio davvero a tutti: al di là degli errori di stampa, ti fa apprezzare una buona scrittura e quello che sembra un racconto troppo di parte alla fine è lo sfogo amaro per un'ingiustizia che mai verrà scontata e il rimpianto per una resa dei conti che non arriverà mai.

Anarchic Rain